Un’oscura presenza

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Ormai non usciva più di casa. Da quanto tempo? Giorni, mesi, anni? Il tempo, non sapeva più che cosa fosse; non ricordava da quando avesse smesso di calcolarlo. Non aveva più amori, affetti, amici.

Non ricordava se li avesse mai avuti. Per un po’ il telefono aveva continuato, ogni tanto, a squillare; ora non più, ma non se n’era nemmeno accorto. Mangiava ancora qualcosa, resti della dispensa, avanzi che si trascinavano e corrompevano nel frigo o qualcosa che la drogheria sotto casa gli lasciava davanti alla porta. Quando, l’ultima volta?

Aveva serrato porte e finestre e si muoveva come un equilibrista malfermo per le stanze vuote, fra polvere, piatti sporchi, panni sudici vaganti. L’oscurità gli era amica e celava il degrado crescente. La sua postazione preferita, il divano mezzo sfondato e macchiato, riusciva ancora a raggiungerlo con un leggero slalom. Lì passava le giornate, davanti a un televisore sempre accesso ma che non guardava, non vedeva – semplice sfondo, parvenza forse di compagnia; unica fonte di luce.

Sentiva che non era sa solo, che una strana presenza, sempre più inquietante gli camminava accanto, che gli alitava sul collo. Non sentiva voci, sussurri, inviti; solo rumori di cose spostate, rotte; una cappa sempre più densa, minacciosa, un’oppressione al petto, allo stomaco.

L’ambiente conosciuto avrebbe dovuto dargli pace, rassicurarlo; ma non era così. Sentiva che la paura montava, che lo paralizzava. Non si spostava più da quel divano cercando di mimetizzarsi col fondo scolorito. Ma non bastava, non bastava più. Con uno sforzo estremo si alzò, sollevò lo sguardo.
Chi era quell’uomo che lo guardava dallo specchio, riflettendo la luce delle bottiglie sparse?

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