Pasquale Ciaùli

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Morì cascando da un dirupo. La notizia si diffuse subito in paese ma, dopo un paio d’ore, tutto tornò come prima: ognuno rapito dai propri pensieri, impegnato a pensare alla cena che avrebbe trovato in tavola; ognuno tornò a lamentarsi del tempo e della propria vita noiosa. Poche frasi di circostanza, sempre le stesse, sempre le solite sopracciglia fintamente contratte in su, il naso arricciato in una smorfia di dispiacere, le mani grosse di chi è schiavo di riti apotropaici, smaniose di stringere cornetti rossi, portate alla fronte, con fare disperato.

– Pover’uomo, in fondo era buono come il pane.

– Non posso crederci, solo ieri l’ho visto e insisteva per portarmi le buste della spesa fino a casa.

– Ah, io non ho niente da rimproverarmi. Gli ho dato qualche spicciolo proprio la settimana scorsa, anche se non me li aveva chiesti. Ah, povero Pasquale. Povero Pasqualino, sempre così solo!

Già: Pasquale morì solo. Impolverato di una compassione che non avrebbe mai voluto avere, ma che accettava in silenzio, pensando fosse l’unica cosa che avesse, l’unico dono che il Signore gli aveva voluto concedere. Era diventato un uomo fragile in pochissimo tempo: sua moglie Guenda morì, dando alla luce Giulio, il loro unico figlio. Da quella notte, Pasquale non fu più lo stesso: dormiva pochissimo, digiunava e passava una buona parte delle sue giornate nel bosco di Torrebrentucci; l’altra parte la trascorreva ad osservare la gente del paese, a seguirla, a cercare di rendersi utile. Pasquale era grande e grosso, sì, ma era innocuo, come un cucciolo di leone. Solo Giulio lo sapeva: il resto dei torrebrentuccesi parlava di pazzia, di malattia mentale, di follia pura e abietta; c’era chi vietava ai propri figli di giocare a pallone in piazza, perché “Pasquale sarebbe potuto passare”; i padri gelosi serravano la porta di casa, proibendo alle loro figliole di uscire, perché “Pasquale di sera, a volte, beveva e poteva essere pericoloso, con le belle ragazze”. Bhe, in effetti sì, Pasquale aveva preso questo vizio, ma non avrebbe fatto del male a nessuno; se mai, l’avrebbe fatto a se stesso. E poi non beveva sempre, ma solo di mercoledì: Guenda morì alle cinque di pomeriggio, di un grigio mercoledì novembrino.

Era triste, ma non lo dava sempre a vedere. Il suo sorriso luminoso celava un male di vivere senza pari e un giorno, la disperazione che gli squassava l’animo da anni ebbe la meglio: bevve tanto, s’ubriacò, andò nel bosco e cadde da quel maledetto dirupo che tante volte il sindaco – panciuto, stolto, menefreghista e tronfio – aveva promesso di riparare, senza mai farlo. Si sa, le promesse dei politici incompetenti sono vuote, dure e sorde, simili all’esistenza dei sassolini su una spiaggia di sabbia dorata.

Come se si trattasse di una tragica profezia, dopo la morte di Pasquale, Giulio non fu più lo stesso. Se il padre, dopo la morte di Guenda, aveva almeno un figlio, Giulio, dopo la morte del padre, poteva dirsi terribilmente solo.

– Povero ragazzo! Ed ora che farà?

– Che famiglia sventurata. Ci vorrebbe una benedizione di quelle potenti!

– Stessa sorte del padre: impazzirà anche lui. Ah, non chiamerò mai mio figlio così. Deve portare davvero sfortuna quel nome.

Il solito vocio dei piccoli paesi. Mille anime strette, grette, chiuse, che vagano in una montagna immensa, elegante, surreale, maestosa, eterna: un paradosso bizzarro.

Suo padre, in uno di quei rari giorni in cui gli dava retta, gli disse che i suoi occhi avevano intrappolato due pezzi di cielo. Ma non il cielo di mezzogiorno; era a quello delle otto di sera, quando è fine estate, che Pasquale si riferiva: quell’azzurro scuro, mescolato a un rosso caldo, che ricorda il colore del deserto, qualche secondo prima del tramonto. Gli diceva anche che sua madre aveva quegl’occhi lì e che era stata la prima cosa che gli aveva accelerato il cuore quando la vide e che, una volta serrati per sempre, quel mercoledì, glielo aveva fatto fermare.

Cammina lentamente, raggiungendo il bosco dove, anni prima, fu trovato il padre. Sospira e si avvicina al punto esatto; scuote il capo e sul suo volto prende vita un sorriso amaro: quel dirupo è ancora lì, così come il sindaco di Torrebrentucci continua a poggiare il culo sulla stessa poltrona. Ma certo, Giulio lo sa: chi era, in fondo, Pasquale Ciaùli? Un povero Cristo smarrito, in cerca del suo cervello, altrettanto perduto. Un uomo che aveva seppellito, insieme alla moglie, il suo sorriso autentico e raggiante, non quello che esibiva ogni giorno ai compaesani. A chi vuoi che gliene importi, se Pasquale Ciaùli sia morto lì, cadendo da quel dirupo? Era solo Pasquale. Un Ciaùli insignificante, senza lavoro, senza moglie, con un figlio al quale badava poco e nulla. Forse, quel dirupo gli ha fatto un piacere: lo ha tolto di mezzo, strappandolo alla sbronza del mercoledì, alle lacrime e ai lamenti, agli occhi della gente, sempre così giudici, maligni.

Giulio Ciaùli, per Torrebrentucci, ha preso il posto del padre.

– Eccolo, il figlio di Pasquale. Guarda che giovanotto, s’è fatto!

– Sì, un bel giovane. Peccato che fa una brutta fine.

– Dici?

– I geni sono quelli. Tale padre, tale figlio.

Tuttavia, lui non ha perso la ragione, no: malgrado sia rimasto solo al mondo e non abbia avuto amici per tutta la durata del Liceo, Giulio è sempre stato forte e ha sempre voluto vivere felice. Dopo il diploma, è riuscito a mantenersi gli studi da solo, lasciando Torrebrentucci e iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza. In una grande città, si sa, è diverso: Giulio ora ha moltissimi amici e una fidanzata; si è laureato col massimo, è tornato a Torrebrentucci ed è diventato Sindaco.

Giulio Ciaùli è il Sindaco che tutti i comuni vorrebbero avere: leale, intelligente, generoso, lontano dagli intrallazzi, serio, umano, coraggioso.

Ciaùli dalla parte dei più deboli.

Ciaùli dalla parte degli emarginati, degli alienati, dei poveri, dei soli, degli additati, come lo era stato suo padre.

Due mesi e il Sindaco diventa papà.

Suo figlio si chiamerà Pasquale. Pasquale Ciaùli.

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