Nelle scatole

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Nella scatola di vetro ci sono altre scatole. Nelle persone intorno ci sono altri contenitori in cui stanno rinchiuse. Cose intorno dappertutto e mi muovo in queste corsie come fosse qualcosa di importante. Come fosse veramente importante. Tutto sempre urgente in mezzo a troppo inutile dispendio, e cose, ovunque cose da prendere, da valutare, da misurare e da pagare. E mentre sono come mi chiedono, alto, misurato, cortese e presente, disponibile e servizievole, mi calo in me stesso osservandomi lungo tutta la giornata. Metri di tovagliato, tagliato e ripiegato, chilometri a piedi su e giù per i piani, diverse angolature e i colleghi.

Mi scusi, lo scusi, ci scusi.

Persone intorno nelle corsie, nell’ascensore e sulle scale. Carrelli da riempire, da svuotare, da abbandonare esosi di pretese o senza lode né infamia. Mi scusi! Lo scusi, ci scusi.

Vado a prendere pacchi e pacchi di paccottiglia per distribuirla. Per darla a chi non ne ha in modo possa smontarla in parti più piccole da smistare, a sua volta, su ganci, gancetti e appendini, mensole e tutti i manichini. Potrebbe non sembrare, ma sto a faticare. L’impegno più gravoso, qui dentro per tutti, è lo stesso sacrificio di tutto il tempo impiegato nel delirio di essere sempre come ti chiedono: gentile, cortese, servizievole e operoso. Come fossimo un alveare, un formicaio che tutto sa da fare. Prendi, metti, sposta, smonta, rimonta, posiziona. Con il sorriso, come vogliono che tu sia, disponibile e sempre presente, ricorrente, ripetitivo, quasi ossessivo.

Mi scusi! Qualcuno chiama, abbisogna indicando necessità occultate dall’assenza o da troppa presenza di cose vane da ingoiare sopraffatti dal desiderio, dal bisogno impellente di comperare ancora e ancora qualcosa da buttare. Ma si figuri, ma le pare.

E mentre ogni ricorrenza diviene scusa per l’offerta, per aprire un’ora in più anche questa domenica, per addolcire l’inganno in cui intrappolare in scatole nelle scatole tutti dentro in questa scatola di vetro, in cui cercare necessità da soddisfare. Fatturare! Fatturare!

Ci sono uomini e donne che permangono all’interno dalle sei del mattino fino alle venti, dal buio al buio, come fosse naturale, come fosse l’unica ragione mettere, rimettere, spostare, smistare, scontare, apparire, togliere, montare, spostare, prezzare, di continuo, di nuovo, ancora e ancora, anno dopo anno, ogni anno, ogni giorno. Mi scusi, lo scusi, ci scusi. Ma le pare!

E i giorni vissuti solo a metà, una pausetta alla volta, per soddisfare un caffè importato dal bar di fronte, seduti in disparte per un momento, un secondo in silenzio senza dover per forza assistere uomini e donne, bambini e pure cani, nell’acquistare qualcosa da comprare, da buttare, da rendere o da ordinare. Mi scusi! Si figuri, ma le pare.

Il silenzio vuoto a volte fa sparire di colpo ogni essere umano dalle corsie. Qualche televisore promozionale gracida nello stagno di un affare che ristagna e per questo abbisogna di logorroico ripetere che sa da fare… un vero affare! Luci accese e via vai di persone. Chi si fotte qualcosa rubando a se stesso un valore di onestà, ripreso in bella mostra in video. Chi prende cose tanto per toccare abbandonandole a caso in altri scaffali dove aprire uno sportello, richiudere un ombrello, scartare un contenitore, spiegare una coperta provando un cuscino sopra la testa, dormendo inebetiti, o correndo lentamente senza idee e senza mete.

Persone che rantolano, disturbando per non disturbare, rimangono fino all’ultimo pur di non rispettare un semplice orario di apertura e di chiusura in un mondo che per tutto il giorno non chiude mai, finché chiude, ma solo per riaprire. Mi scusi, ma le pare, si figuri.

E domande, quante domande, quante richieste. Quanto pesa? quanto è alto? Mi dica ordunque anche il lato. Quanto è profondo questo occhio vitreo? quanto ingombro? ma la consegna? Rimane senza cena. Ma l’opportunità? È svanita la genuinità. A che piano devo andare? Di sopra le dico – Allora scendo! Ma quanto mi verrà a costare? Legga il bigliettino, lo mettiamo di proposito per non dover ricordare giorno dopo giorno il cambiare di un nome, ma non della sostanza che può solo peggiorare. Mercoledì mi toccano i cessi da lavare. Lunedì gli ascensori, martedì spazzare fuori. Il piazzale di fogliame, e di tanto in tanto le vetrine da pulire. Gabbie di vetro fuori e dentro, gabbie. Roll, gabbie di ferro, da portare al pian terreno per il camion dell’indomani. Cartoni, sacchi neri, pattume nel pattume, grigiore nel colore.

Mi scusi! Lo scusi, ci scusi, ma le pare. È terminato, non l’hanno ordinato, l’avevamo, non teniamo, vada più avanti, a sinistra, a destra, di sotto, più sotto. Più sotto di così…

E ti prendono la vita dicendoti che è cosa buona e giusta.

Ora rido perché vedo quasi tutte le scatole e non scuso più nessuno, anzi li rimprovero. Non sarà un atteggiamento maleducato, autoritario e ricattatorio a tacere ciò che dentro di me non chiede più il permesso per realizzarsi.

Ora lo so, siamo chiusi a tutte le vostre follie.

Esco da queste scatole con un sorriso distante anni luce, come fosse un altro secolo, un’altra epoca, un’altra esperienza che guidi verso la libertà.

Ma le pare.

Foto di Openpics da Pixabay

Una risposta

  1. Cristina ha detto:

    Coinvolgente. Estremamente vero. La tua scrittura mi emoziona sempre. Cri

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