Il viaggio per dirti addio

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di Paola Lombardi

Il treno è arrivato in orario. Esattamente come previsto. A mezzanotte e tre minuti il convoglio è entrato in stazione. Nessun inconveniente, nessun imprevisto. Per tutte le cinque ore del viaggio non è accaduto nulla. I sedili mi sono sembrati comodi, spaziosi e il vagone quasi vuoto. Nessuno con cui avviare una conversazione. Cinque ore cullate dal rumore prodotto dall’attrito con le rotaie, solo un lieve ronzio difficile da decifrare e il mormorio delle pagine del libro sfogliato di malavoglia. A pochi chilometri dalla destinazione una forma di ansia mi ha colto di sorpresa. E se non ci fosse nessuno ad aspettarmi? Cosa farei senza soldi, senza conoscere nessuno in una città sconosciuta? Se non ci fosse nessuno in stazione.

E se scendessi dal treno e non trovassi nessuno? Quanti passeggeri ci saranno ora su questo treno? La stazione sarà deserta. A mezzanotte non c’è nessuno. Perché ho preso il treno così tardi? Perché ho preso il treno? Le domande diventavano, mano a mano, più ossessive. Meno chilometri mi separavano dall’arrivo e più forte, dentro la mia testa, aumentava la tensione. Mi giudicavo folle per quel viaggio azzardato. Poi il fischio, il treno si è fermato, le porte si sono aperte come fauci spalancate davanti la follia di un viaggio azzardato. Nessuno. Nessun uomo, nessuna donna. Sono scesa perché non c’è stata la possibilità di tornare indietro. Ho sentito i miei passi ticchettare sul marmo lucido della banchina. Un silenzio freddo che mi ha dato la sensazione di amplificare la mia paura. Sono stata così concentrata nel camminare verso l’uscita da non accorgermi che un uomo mi stava osservando. Non ho fatto altro che guardare le mie scarpe muoversi sui lastroni di marmo.

E’ mentre guardavo per terra che mi sono letteralmente scontrata contro un uomo. “Mi scusi” ho balbettato. E una mano mi ha preso il mento sollevandolo. Era lui. E’ venuto a prendermi. Esultavo, le paure di qualche istante prima sono scomparse.
“Tutto bene il viaggio?” e mi ha abbracciato con l’intenzione di baciarmi.
In quel momento mi sono resa conto che non ci vedevamo da quasi tre mesi. Il mese scorso non è più venuto a trovarmi per un improvviso impegno di lavoro. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo iniziato a camminare fianco a fianco. Lui mi ha sorriso mentre mi chiedeva qualcosa, qualcosa che non ho nemmeno registrato. “Non ho voglia di andare a casa. Ancora. Pensi ci possa essere ancora qualche locale aperto?” Gli ho chiesto dissimulando la tensione che ho provato in quel momento. “Sì, andiamo” e piroettando sulle strade siamo arrivati in un bar con gli arredi in stile liberty. I tavolini erano piccoli, il mio rossetto terribilmente rosso. “Devo parlarti”, ho esordito. E lui come nulla fosse: “Cosa prendi? Io non saprei forse qualcosa di dolce”. “Io prendo un caffè” ho risposto agitata. “Sì?

Per me è meglio di no. Ho bisogno di riposare un po’. Sai, questo è un momento difficile”, ha ribattuto lui con un sorriso sereno. Poi ha allungato la mano sul tavolo per posarla sul dorso della mia. “Sono venuta a dirti una cosa importante”, ho ritentato di spiegare. E proprio in quel momento è arrivato il cameriere. Lui ha ordinato per tutti e due e io, nell’attimo di silenzio, ho ripreso: “Sono venuta a dirti…” ma la sua voce mi ha sovrastato: “Non ti farà male il caffè a quest’ora?”

Ho perso la pazienza: “Senti, sono venuta fin qui per dirti che ti lascio. Anzi non sono io che ti lascio ma sei tu che mi lasci andare. Ho bisogno di vivere la mia vita. Non posso continuare ad aspettare il miracolo”. Il mio tono di voce era diventato più alto del dovuto, quasi un urlo trattenuto. Con la coda dell’occhio ho visto una scatolina di velluto blu appoggiata sul tavolo. Ma nello stesso tempo mi sono accorta che avevo poco tempo. Il treno sarebbe ripartito all’una e mezza e non avevo più tempo. “Hai capito cosa ho detto?” ho strillato nella piccola sala quasi deserta. Lui ha annuito con la testa. Mi è sembrato sorpreso e confuso. Non gli ho dato tempo di riprendersi e sono corsa via. Ho preso il treno giusto in tempo. Appena si sono chiuse le porte, mi è arrivato un messaggio sul telefonino. La foto sfocata di un anello con un piccolo brillante. Credo di aver pianto singhiozzando rumorosamente, ma tanto nel vagone non c’era nessuno.

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