Tra baratro e cielo – seconda parte

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di Antonella Lolli
Un sibilo di vento. Un fruscio di foglie. Il rumore del mare. E poi quella voce. Sempre la stessa, sempre lo stesso timbro, sempre le stesse parole. La prima volta che l’ho sentita, ero in cucina.
Mia madre preparava una torta e piangeva, perché mio padre se n’era andato con un’altra più giovane, più fresca, più avvenente. Già, gli uomini sono così.
– Se solo tu non l’avessi fatto arrabbiare, se solo ti fossi comportata meglio! Sai quanto teneva alla scuola. Sai quanto sarebbe stato orgoglioso di te, se ti fossi messa a studiare seriamente, senza pensare a festini, discoteche e minigonne! – Continuava a piangere – Se solo fossi stata una figlia diversa, ora sarebbe qui. – In quel momento, pensavo che mia madre fosse terribilmente ingiusta. Avevo la superbia e la ribellione tipiche dei quindicenni. Ricacciai indietro le lacrime e, con la mia faccia tosta, le risposi a tono.
– Adesso sarebbe colpa mia se ti ha lasciato, vero? Dipendeva da me, dal mio andamento scolastico il vostro rapporto di coppia? È così? –
La guardavo fissa negli occhi. In quel momento, provavo odio. Repulsione. Voglia di gridare. Rabbia. Tutto questo mescolato a un dolore lancinante al petto.
– Chi me l’ha fatto fare a metterti al mondo… Gesù! I figli danno solo problemi. Ah, se tornassi indietro! –
Forse non era sua intenzione, ma mia madre mi ferì, quella sera. Le sue parole scavavano nella mia anima facendomi male.
Ucciditi. Esci ora, vai in mezzo alla strada, buttati su un’automobile in corsa. Non servi a nessuno.
Ecco la voce. Mi risuonava nei timpani stordendomi tutta. Era la voce della verità. La voce del dolore. La voce di qualcuno che mi voleva bene, che vedeva la sofferenza prima di me e che cercava di salvaguardarmi, o porre rimedio. Nei secondi immediatamente successivi alla frase di mia madre, io credetti che quella fosse la cosa giusta da fare. Ero come ipnotizzata e sentivo che avrei fatto tutto ciò che la voce mi avesse chiesto. Perché era la voce di un qualcuno che mi voleva bene. Magari era la voce di un angelo. O di Dio.
Avevo accantonato quest’episodio, quella voce, anche perché non l’avevo più sentita. Non sapevo che quello sarebbe stato l’inizio di un calvario.
Col passare degli anni, la mia situazione peggiorò. Se a quindici anni uscivo anche troppo e mi divertivo, a venti stavo serrata in casa. Non sopportavo nessuno. Ero sicura che tutti quelli che mi circondavano sapessero cosa pensassi, cosa provassi. Mi sentivo viscida e nuda, sotto lo sguardo indagatore della gente. Non scendevo nemmeno più a fare la spesa. Mi sentivo osservata dalla cassiera, dai clienti, da chiunque. Sempre sotto i riflettori, sempre col dito puntato. Ero sicura che i vicini parlassero male di me. Che complottassero qualcosa per farmi del male. Fu questo il periodo in cui ebbi la prima allucinazione visiva. Ero a casa, ancora con mia madre. Stava convincendomi ad uscire, ad accettare l’invito di un’ex compagna di classe, ma io ero irremovibile. All’inizio, cercai di stare calma, poi scoppiai. Che ne sapeva lei, della cattiveria che c’era là fuori? Come poteva minimamente immaginare cosa la gente pensasse di me? Quanta ipocrisia, quanta falsità? Non poteva saperlo, perché lei faceva parte di quel complotto, perché lei era come loro. Mia madre mi guardava con severità mista a compassione. Improvvisamente, vidi migliaia di scarafaggi attraversarle il viso, scendendo giù agli arti, sino a ricoprire tutto il corpo. Strizzai gli occhi e poi li sgranai. Quegli scarafaggi neri erano ancora lì. Corsi verso di lei, tentai di scrollarle di dosso gli orrendi insetti, ma non venivano via. Mia madre mi sembrò un mostro. Gridai. Mi accasciai. Avvicinai il petto alle ginocchia e mi strinsi le gambe, poggiandovi sopra la fronte. Volevo nascondere le mie lacrime. Ma volevo anche nascondere il fatto che io avessi paura. Paura di mia madre. Paura di ciò che vedevo.
Viscida. Tua madre è viscida. È uno scarafaggio.
Stavolta, la voce mi si presentò con un rumore strano, come se si fosse frantumato un vaso di cristallo. Mi fischiavano le orecchie e chiusi gli occhi. Quando mi risvegliai, mi ritrovai a letto, con mia madre vicina, che dormiva con la bocca spalancata. Doveva essere notte fonda.

***

Sono malata.
L’ha detto il dottorino col camice bianco immacolato e con gli occhi indagatori.
Sono gravemente malata.
– Prima te ne fai una ragione e prima guarirai. – Così ha detto Liguori.
Mia madre. Lo scarafaggio gigante e viscido che avevo visto. La scaricatrice di colpe. La donna sola e repressa, che ha riposto tutte le sue energie, tutta la sua vita nelle mani vuote di un uomo che l’ha scaricata, come un’auto da rottamare. È stata lei a contattare il dottorino. Dopo la mia ultima allucinazione, che non sto qui a spiegare, ha fatto una ‘telefonata veloce’ ad un suo conoscente dottore. Mi ha preso un appuntamento. Mia madre fa parte del complotto, ne sono sicura. Sta studiando, insieme agli altri, il modo più veloce – forse indolore, in fondo sono sempre sua figlia – per farmi del male. Il dottor Liguori, che si porta a letto mia madre e che l’abbandonerà, prima mi sorrideva perché sa del complotto. La segretaria mi fissava perché ne fa parte anche lei. E ne fa parte anche la settantenne con cui mi sono scontrata: non è stato un fottuto caso, no. La riccona con le perle al collo è venuta di proposito verso di me, per scrutarmi gli occhi, come il dottorino, come la segretaria. Voleva vedere di che colore fossero gli occhi di una che deve perire inevitabilmente. Voleva vedere se conservassi ancora la luce dell’innocenza. Voleva godere, la vecchia. Godere del mio dolore, della mia fragilità, della mia diversità. Tutti vogliono godere nel vedermi affondare.

***

Sono seduta sulla panchina del giardinetto. Piove ancora. Ho i capelli bagnati appiccicati al viso. Il trucco mi cola dagli occhi e, anche se non mi vedo, so che le mie guance sono attraversate da irregolari strisce nere di mascara.
Dio, quant’è pavida, la gente. La strada dopo il giardinetto è completamente deserta e questo solo perché piove a dirotto. Amo i giorni di pioggia anche per questo. Io e la panchina. Io e il cielo d’acciaio. Io e la pioggia che mi lava, che mi purifica.
Io e quella voce.
Ecco, ora sono etichettata come ‘malata’. Ma so che non è vero. So bene di non esserlo. Vogliono convincermi che io sia pazza, tutti. Liguori per primo, dato che si porta a letto mia madre e sa che io non approvo.

Schizofrenia paranoide. Così l’ha chiamata il dottorino.

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