Appuntamento all’hotel Roma

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di Paola Lombardi
L’appuntamento fu fissato con largo anticipo. Stavolta non si può fare tardi, non sarebbe elegante, non sarebbe corretto, si disse lei.

“Allora, signorina ci vedremo presto. Appuntamento all’hotel Roma, sì?, domenica 27 agosto, alle 19 in punto”.

Da quel momento, i giorni presero a volare all’impazzata, a scontrarsi l’uno contro l’altro come cavalli imbizzarriti. Il tempo si mise a correre, frettoloso e maldestro. Lei, tutta presa da quell’appuntamento, non si rese nemmeno conto di quanto veloce e preciso si mosse il tempo.

Pensò di andare dal parrucchiere il giorno stesso, pensò di mettersi a dieta qualche giorno prima. Perché? Una profonda ansia la invase già sui primi di agosto di quell’anno incerto. Il cuore le batteva furibondo nel petto, le mancava il fiato in certi momenti e tutto per che cosa? Per una voce ascoltata per telefono e per due bigliettini arrivati con la posta ordinaria.

Lei era una ragazza del sud, nel suo paese tutti la consideravano una bellezza, anche le galline che beccavano sulla terra battuta nella piazza della chiesa. Cosa poteva mai sperare, una ragazza del sud in quegli anni incerti? Un matrimonio, ecco cosa poteva sperare. Meglio, un matrimonio con uno del nord. E l’occasione era arrivata anche per lei.

L’annuncio le era balzato subito agli occhi. L’occasione che sperava da sempre era lì stampata sul giornale, in quelle poche parole descrittive “bella presenza, impiegato, geometra diplomato”, di cos’altro poteva avere bisogno? Un lavoro, un titolo di studio e poi Torino. Come aveva sempre sognato. Andare al nord anche lei, come le sue sorelle più grandi, andare in città dove ci sono i negozi, dove di sera le strade scintillano, dove non si sente sempre quell’odore di stalla e di povertà.

Si mise a sognare subito, Rosetta, toccandosi i capelli ricci e morbidi. Tutto quel sole che le stava addosso non le era mai piaciuto e si immaginava con le calze e le scarpe con il tacco a camminare per le strade di Torino. Per giorni non riuscì nemmeno a dormire e quando arrivò nella grande città del nord si sentì le gambe molli e quando vide suo cognato nella stazione le venne da piangere per la felicità e l’emozione. Sua sorella Gina le offrì subito aiuto. Anche lei viveva a Torino, ma il marito era del paese e faceva l’operaio. Per Rosetta, invece, era diverso. L’uomo che avrebbe incontrato era del nord. Un sogno, un’occasione d’oro.

Finalmente, arrivò la domenica, il giorno dell’appuntamento. Gina si mostrò scettica all’idea di mandare la sorella minore da sola incontro al suo destino. Secondo Gina, Rosetta doveva essere accompagnata da qualcuno. Da sola non poteva di certo andare. Che figura avrebbe fatto? E se fosse stato un malintenzionato? La trattativa fu lunga e difficile e alla fine Rosetta si trovò a prendere il tram insieme a Giuseppina, la figlia di Sandra, la vicina di casa del paese che era vicina di casa anche adesso che erano emigrati al nord.

Rosetta e Giuseppina si avviarono ed erano agitate tutte e due. Rosetta si guardava intorno tutta rapita e stupita. Si rese conto che l’emozione le avrebbe fatto brutti scherzi e si sarebbe ritrovata a parlare in dialetto con quello sconosciuto. E se fosse stato tanto brutto? E se fosse stato uno del sud, invece? Magari un calabrese basso e nero?

Immersa in quei pensieri Rosetta non si accorse della strada e non vide che Giuseppina si era addormentata. “Giuseppi’ – la scosse – svegliati. Ci siamo perse!”

Proprio così, avevano perso la fermata. Sarebbero arrivate tardi. Rosetta si sentì sempre più agitata e preoccupata. “Come faccio? come faccio?”, gemeva ad alta voce tra la gente.

Camminando come forsennate e con i capelli tutti in disordine, arrivarono finalmente in quella via Roma. Perché proprio lì l’appuntamento? e perché proprio quella sera doveva succedere quello che successe?

Rosetta non aveva nessuna speranza di incontrare l’uomo della sua vita. Era troppo tardi, forse, era già andato via. Che sciocche erano state. E’ il destino che ci mette lo zampino. Le veniva da piangere per la rabbia e lo sconforto. Entrarono nell’atrio tutte e due trafelate. Non riuscirono a dire una parola al cameriere. Nemmeno a vedere chiaramente chi c’era al bar. Loro due sulla porta con il fiatone sentirono una voce strillare dalle scale: “C’è un morto!”, Le due ragazze si ammutolirono e si fermarono immobili, mentre tutto intorno a loro, si muoveva concitatamente, un uomo le urtò facendosi largo verso l’uscita. Rosetta e Giuseppina non fecero niente. Non riuscirono a dire niente se non stringersi forte le mani.

“Dov’è il morto?” e fu il parapiglia. “Nella 346“, fece eco un altro cameriere. Il suono delle sirene risvegliò le due ragazze. Giuseppina prese coraggio e si trascinò via Rosetta con la faccia stravolta e lo sguardo terreo. “Un morto…”, mormorò appena. “E chi sarà?”, si chiese. “Andiamo via, Rose’. Andiamo via”.

Uscirono sulla strada quasi di corsa. Rosetta piangeva a dirotto guardando a terra. Non fece che pochi passi e si appoggiò al muro stremata e in lacrime. Un uomo le si avvicinò e le chiese: “Lo conosceva?”, “No – rispose lei singhiozzando – l’ho sentito solo per telefono e mi ha scritto due lettere. Non l’ho mai visto, lo dovevo incontrare stasera”.

“Mi dispiace, signorina, aveva letto i suoi libri?”. Rosetta annuì senza capire. In quel momento si convinse che il morto era l’uomo con cui aveva appuntamento.

L’indomani mattina, vestita a lutto, si rimise sul treno e se ne tornò al paese. “La città non è per me”, disse alla sorella.

 

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