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Ci sono tanti itinerari di viaggio da percorrere durante le ferie; spesso durante il cammino si fanno incontri inaspettati e t’imbatti in qualcosa che ti lascia a bocca aperta. A me è successo e mi sono ritrovata in una mostra dedicata al Centenario della Prima Guerra Mondiale curata dal Museo del Fronte della Memoria di Gaeta. Nel mondo dove la tecnologia la fa da padrona, viene la pelle d’oca nel vedere quelle divise, quelle armi, quegli oggetti di guerra e paramenti sacri di un secolo fa.

Ti guardi intorno ed essi silenziosamente sembrano parlarti.
Vedi quei pannelli e ti sembra di rivivere quel 7 marzo 1915 quando a Gaeta l’allora premier Antonio Salandra annuncia che con molta probabilità l’Italia entrerà in Guerra, reclutando dei giovanissimi, quelli che in seguito saranno ricordati come i “Ragazzi del ‘99”.

Chiamati alla leva per essere impiegati sul campo, non conoscono la guerra non possono informarsi su Google e Wikipedia. Accettano di indossare quella divisa, di onorare la patria; vedendo il gavettino e il fornellino da campo portatile mi sono chiesta di cosa parlavamo, cosa pensavano, cosa speravano.

Non ho risposte a ciò, purtroppo non avevano con loro smartphone di ultima generazione, dove immortalare le loro impressioni.
Ho respirato l’odore di questi oggetti, pur essendo secolari, non era cattivo, bensì, sapeva di dignità, umiltà, ideali forti per i quali lottare.
Alcuni di questi ragazzi sono rimasti nella storia come Nazario Sauro, Cesare Battisti, gli uomini della brigata Gaeta e della brigata Sassari; ispirandosi al conflitto di Caporetto questa parola è entrata nel gergo locale, infatti, dire “subire una Caporetto” significa ricevere una Sonora sconfitta.

Questi giovani di allora hanno combattuto quella che per dimensioni e durata è stata denominata la Grande Guerra, tornare un secolo indietro attraverso questa mostra fa capire la piccolezza delle cose.
E’ bene portare i ragazzi di oggi a vedere questa mostra, a sentire queste storie, perché a volte la tecnologia è bene spegnerla un po’.

Antonella Branca

Sono nata qualche annetto fa, cresciuta in un piccolo paese ricco di storia e tradizioni, a pochi passi dal mare, dove tuttora fuggo appena possibile. Ho frequentato la biblioteca del mio paese e sono cresciuta con lei, nel 2004 insieme con alcuni compaesani abbiamo fondato un’associazione culturale e creato un piccolo giornale a diffusione gratuita dal titolo “Sciuccaglie”. Sempre in quell’anno con un gruppo di amiche ci siamo occupate del nascente Museo della Pietra e siamo state formate per essere guide turistiche. Appassionata di seggi elettorali e politica, nel 2005 ho svolto un percorso universitario per l’accesso delle donne in politica e nelle istituzioni; lì mi sono innamorata della storia delle donne e della condizione femminile. Ho partecipato, dietro le quinte, a un progetto sulla guerra e le violenze di quel tempo. Nel 2010 ho creato un blog tutto mio, dove raccontare di viaggi nelle tradizioni popolari, nelle ricette italiane e della cucina povera. Ho scritto storie d'amore e di amicizia, e altro ancora. Scherzosamente mi definisco un po' giornalista, un po' food blogger, un po' storica. Ma sognatrice, romantica e solare; schietta, diretta e determinata.  Cerco di trasmettere i sentimenti che catturo nel mio vivere quotidiano, spesso con ironia dico: "Sono una scrittrice, qualsiasi cosa tu dica o faccia può essere utilizzata in una storia". Ho partecipato alla prima edizione del premio letterario “Veroli Alta”, con il testo C’era una volta il paese di pietra, nel 2013 e sempre in quell’anno ho scritto il mio libro auto-prodotto, non in vendita perché è la mia bomboniera di nozze; dal titolo “IL SAPORE DEI RICORDI”. Ho collaborato con varie realtà e dal 2016 con immenso piacere scrivo per voi di tantestorie.it.

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