L’ortolana

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di Giuditta Di Cristinzi
L’ho rivista l’altra sera. Che brutta impressione mi ha fatto, povera Filomena.

Quarantotto anni suonati e la resa dipinta a fosche tinte sul volto. Un’espressione sfatta, stanca, stravolta. Contrariata. Vestita di nero o, comunque, di scuro, bassa, grassoccia, il ventre sterile più prominente del seno, quasi schiacciato sullo sterno pronunciato. Una scriminatura netta nei capelli lisci, tinti di nero, grassi come sempre, evidenziava un centimetro circa di ricrescita grigia. Camminava con la borsa da una parte e una ventiquattrore scadente dall’altra, pesante e gonfia di carte. Erano le cinque mezzo del pomeriggio. Sicuramente andava allo studio. Già, perché Filomena, non contenta di lavorare al Genio Civile come dirigente, aveva anche un secondo lavoro. Il pomeriggio rientrava con l’autobus da Marino, passava da casa a controllare la mamma, sola e malata e poi andava dall’ingegnere Palumbo, una iena che la sfruttava per pochi soldi al mese, per fare i lavori più importanti, i calcoli più difficili, i disegni più ardui e complicati. Perché mai, mi chiesi, fa questi sacrifici?

Ero in giro in macchina per commissioni con la mia piccola Francesca che parlottava da sola sul sedile posteriore. Sì, era dura anche per me. Il lavoro, la casa, i figli e un stronzo di marito. Ma non mi davo mai per vinta. Ogni giorno me ne inventavo una nuova. Frugavo nelle pieghe dell’animo e delle evenienze quotidiane e trovavo un briciolo di buon umore, un po’ di amor proprio, la voglia di amarmi, di prepararmi, vestirmi, truccarmi, non buttarmi giù per la noia o la fatica o l’insoddisfazione.

Filomena, invece, era diventata una donna spenta, scontenta, sconfitta. Di umili origini, aveva fatto comunque la sua ascesa. La madre ortolana si sistemava ogni giorno con un carrettino a vendere broccoli, insalate e peperoni davanti al negozietto di alimentari del marito, Albertino. Si diceva che fossero come cane e gatto. Lei bella, alta, florida e rubiconda; lui, una buccia di cipolla, rattrappito, basso, magro, un po’ curvo, quindici anni più vecchio della moglie. Perché litigassero tanto, pare per danaro, non l’ho mai capito. In fondo, entrambi lavoravano e guadagnavano qualcosa, si erano sposati e avevano avuto due figli, Vincenzo, geometra, e Filomena, appunto. La più brava della classe, della mia classe al liceo. Anche allora, più di trenta anni fa, Filomena appariva più vecchia, più grande della nostra età. Aveva un viso pallido e grigio, si vestiva con colori improbabili per una ragazza di quindici, sedici anni, di grigio, bordeaux, celeste, polvere. Ma la ricordo sempre così, con un giaccone beige nel quale pareva caduta dentro. Grassottella ed eternamente, inutilmente a dieta. Ma a scuola era un portento. Brava. La più brava. Non per particolare intelligenza. No. Un’intelligenza normale. Ma per ore e ore di studio. Sapeva tutto. Studiava tutto alla perfezione, tutto a memoria. Perché non lo so. Forse per ambizione, o per passione, per desiderio di riscatto sociale o per dovere. Chissà. Ma le versioni non le passava mai. Ogni volta che avevamo un compito in classe e le chiedevamo qualcosa, rispondeva:
– Ancora non ci sono arrivata lì… –.

Non era mai arrivata al punto, al nodo gordiano della traduzione. Ma prima dello scadere del tempo, ricopiava in bella, rileggeva tutto con attenzione e consegnava. E prendeva sistematicamente otto. Aveva la passione della lettura, suo unico hobby, e spendeva tutti i suoi soldi, quelli che le regalava la vecchia nonna materna Clementina per qualche servizio reso e un po’ di compagnia, in libri. Era abbonata al club degli editori o qualcosa del genere e pian piano si era formata una discreta di biblioteca, dal nulla.
Una volta fummo interrogate insieme, in geografia. Aveva imparato a memoria, una ad una, tutte le capitali dei 50 stati degli USA. La prof rimase piacevolmente sorpresa. Si complimentò. La guardava con ammirazione. Filomena non sbagliò un colpo. Mentre io, che la sera prima ero uscita con Claudio, feci una mezza figura confondendo l’emisfero australe con quello boreale.
Erano passati ormai più di trent’anni. Il padre di Mariella era morto. La nonna Clementina, con i suoi piedi tutti storti e bitorzoluti, pure. Il fratello si era sposato ed era andato via. Lei non si era mai fidanzata, né sposata. Non aveva amici.

Mi chiedevo se fosse ancora vergine. La mamma non coltivava più l’orto vicino casa. Si era ammalata di una malattia respiratoria rara e viveva chiusa in casa, spesso attaccata l’ossigeno. Filomena, dopo il liceo si era iscritta alla facoltà di Architettura. Si era laureata, con grande ritardo, ma con 110 e lode, come prevedibile. Aveva fatto un concorso alla Regione senza riuscire e poi al Genio Civile e l’aveva vinto. Andava ogni mattina un pullman a Marino. Ritornava e andava allo studio dell’ingegnere Palombo. Usciva di lì per le otto, forse le nove di sera. Rientrava a casa, cenava, abbuffandosi di pane e qualcosa. Avviava il pranzo per la mamma per l’indomani. Ritirava il bucato steso ad asciugare la sera prima. Andava nel suo studio, sceglieva un libro e se ne andava letto con quello. Dopo un’ora circa di lettura, caricava la sveglia per le 6.30 del mattino successivo, spegneva la luce e s’addormentava. Stanca e scontenta.
L’espressione che le si era scolpita sul volto, tradiva solo la verità.

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