Chi sei?

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Tempo di lettura: 6 Minuti

di Giuditta Di Cristinzi
La prima volta che parlai con Emilio fu una mattina di aprile di nove anni fa. Si erano trasferiti nella villetta accanto durante le vacanze di Pasqua. Strana coppia, strana famiglia. Sfuggente lei, gioviale lui. Attaccò subito bottone.
– Buongiorno, signora. Posso offrirle la prima rosa del nostro giardino? Anzi, mi scusi, mi presento. Sono Emilio Poccioni.
Seppi che avevano lasciato un appartamento dalla parte opposta della città per trasferirsi in una casa con un po’ di giardino. Lui era sempre lì a trafficare, faceva le faccende. Lei usciva al mattino e rientrava nel primo pomeriggio. Per mesi non seppi che lavoro facesse, per delicatezza non chiedevo nulla, anche se lui mi apostrofava ogni mattina con una delle sue. Divenne un’abitudine. Ora galante, ora scherzoso, ora più spiccio. Se mi soffermavo in casa a fare servizi, che so, a battere un tappeto sul balcone, me lo ritrovavo di fronte, solo, affacciato alla finestrella del bagno a fumare la prima sigaretta del mattino oppure sul terrazzo a spazzare il pavimento. Se uscivo con l’auto, ero costretta ad avvicinarmi alla loro recinzione e me lo ritrovavo lì, sul dondolo, ad accarezzare il gatto o a parlottare col vecchio cane tubercolotico. Non osavo chiedere nulla per non essere a mia volta richiesta di esaudire eventuali curiosità.

All’improvviso, Emilio sparì. Senza preavviso. Lui e la sua vecchia macchina blu, parcheggiata eternamente per strada, di fronte casa. Lei continuò il suo menage, ma pareva più scostante, nervosa ed evasiva, se è possibile. Gli animali domestici erano rimasti lì. Ogni tanto la casa si animava della presenza di altre persone. Ospiti? Familiari? Due ragazze venivano spesso nei weekend e nei periodi di festa. Erano le figlie universitarie di lei? Ma sì. Le sentivo chiamare mamma la padrona di casa.

Un pomeriggio di settembre, circa due anni dopo, Emilio ricomparve. Il rombo della vecchia macchina smarmittata lo preannunciò. Il cane malato abbaiò appena ne percepì la presenza. Lei uscì di casa e gli si fece incontro raggiante, lungo il vialetto orribilmente lastricato con piastrellone di cemento e pietrame di fiume. Io, non vista, rientrai in casa dalla porta finestra della cucina sul retro.
Dunque, lui era partito ed ora era rientrato. Dov’era stato? Una missione di lavoro? Che fosse un agente segreto? Qualcuno con un incarico particolare? Riflettevo sul fatto che usava dirmi una parola ogni mattina, un buongiorno, un complimento, uno scambio di battute sull’attualità, la famiglia, la politica e poi se n’era andato così, per circa un anno, senza dire una sola parola, né prima, né dopo.
Forse era andato via pensando di non tornare mai più. Ma, invece, era tornato e non poteva non provare un po’ di imbarazzo per il suo comportamento manchevole. Ma non lo diede a vedere e ricominciò la solita tiritera. Faccende, ore d’ozio in giardino con gli animali, letture, buongiorno e buonasera.

I nostri vicini credo ne sapessero quanto me e, comunque, non indagai per non apparire pettegola o intrigante.
Un giorno, camminando a piedi nel quartiere, curiosai al loro citofono e alla buca delle lettere, dove c’era un bigliettino bianco con su scritti tre cognomi, Ferrara – Cancelli – Poccioni.
Dunque, lui sul citofono c’era, ma era l’ultimo. Ferrara doveva essere lei, Cancelli forse le figlie, col nome del padre, e Poccioni era lui. No, non era il padre delle ragazze, del resto una volta le avevo sentite chiamarlo per nome. Non era nemmeno lo zio. Doveva essere il compagno della Ferrara, ma perché non lavorava? Poteva avere circa 50, 55 anni al massimo, dunque era in piena età lavorativa, un bell’uomo, di buona cultura.
Mi decisi.
Una mattina che avessi avuto un po’ più di tempo da perdere, qualcosa l’avrei domandata.
– Buongiorno, signora. Tutta in verde oggi, eh? Diceva mia madre che chi di verde si abbiglia, di sua beltà si fida.
– Emilio, buongiorno a te. Sei in vena di complimenti oggi.
– Ma no, non sono complimenti. Stai davvero bene e il verde è il mio colore preferito. Lo sai che ti ammiro e sai come sono fatto, mi piace chiacchierare.
– No Emilio, per la verità non so proprio nulla di te. Chiacchieri tanto, ma non dici niente. Non so che lavoro fai, di che ti occupi, se hai figli. Io, invece, sono tutta qui, come mi vedi, casa, marito, figli e lavoro. Nata e vissuta qui, tutti mi conoscono.
– Che vuoi che ti dica? Nulla di interessante. Sto con Paola e no, come vedi, non lavoro.
– Hai figli?
– No, non ne ho di figli proprio miei. Non l’ho mai desiderato. Ho sempre pensato che l’aver figli renda egoisti.
– Egoisti? Ma che dici? Una mamma è la persona più altruista del mondo.
– Sì, magari verso i propri di figli, ma poi si chiude all’esterno.
– Ma no, Emilio, non credo proprio. Penso che i figli ci facciano essere più aperti, più al passo con i tempi.
– Beh, non intendevo in quel senso. Comunque io non ne ho e Paola ne ha due.
– Sei andato via per così tanto tempo, senza dir nulla, senza salutare…
– Scusa, Claudia, squilla il telefono. Devo rispondere.
Ecco, mi ha sistemato di nuovo, mister cortesia e discrezione, pensai.
Ci rinunciai e mi disinteressai a lui, presa dalla routine quotidiana. Qualche tempo dopo, mentre ero in garage a sistemare i giocattoli dei bambini, li sentii urlare. Lei era furiosa, una iena.
– Miserabile, che ha fatto tutto il giorno, eh? E già, perché lui il pomeriggio deve fare riposino…
– Ma Paola, ti prego, non fare così, ho spazzato tutte le foglie del viale.
– E l’immondizia, l’immondizia la fai trovare a me, da buttare quando torno stanca dal lavoro?
– Ora vado, vado io.
Mi sentii mortificata per lui. In fondo Emilio era strano, ma mi sembrava un buon uomo, un po’ anticonvenzionale forse, con un accento del sud stemperato dal tempo e non meglio individuabile. Sembrava un uomo colto, faceva riflessioni profonde, ma era evidente che la loro situazione non era pacifica o consueta.
Di lì a due settimane lui sparì di nuovo. Come l’altra volta, senza dir nulla, senza salutare. Lo capii soprattutto dal posto vuoto sulla strada, orfana della sua vecchia auto blu e dalla faccia torva di Paola, se possibile più frettolosa più che mai.
Non ci pensavo più, quando lo incontrai
Erano i primi di settembre ed ero andata in provveditorato per prendere visione di una graduatoria e avere informazioni sulle domande di supplenza da fare ai presidi. Mi fermai nell’atrio. C’era fila, due, tre persone dinanzi a me. Allo sportello, di spalle, una sagoma nota, vestita di scuro.
– Prego, compili anche questo campo.
– Proviamo anche per le superiori?
– Ma si, era abilitato no?
– Sì, lo ero. Proviamo. Grazie di tutto.
Si girò. Era lui, Emilio Poccioni.
– Emilio, tu qui? Come stai?
– O cara, che piacere vederti. Io bene e tu, come stai?
– Benone, ma tu? Vai, vieni, ma si può sapere che combini? Ormai si conosciamo da un po’.
– Claudia, ho avuto problemi con i miei. Mia madre è anziana. E’ stata poco bene, sono tornato al paese per un po’.
– Ma ora sei di nuovo da Paola, no?
– No, non più. Però ci vediamo dai. Passerò una mattina a salutarti e comunque, guarda, ti lascio il mio numero di telefono, magari ci ritroviamo ad insegnare insieme.
– Va bene, Emilio. Ti aspetto per un caffè e se non vieni ti giuro che ti chiamo. Venne il mio turno e l’impiegato allo sportello mi fece:
– Lo conosce?
– Sì, perché? E’ il mio vicino di casa, anzi lo era, per la verità.
– Poveraccio, fece quello di rimando. Quella virago di Paola Ferrara allora l’ha lasciato di nuovo?
– Sì, è la mia vicina, strana coppia. Lui va, viene, va. Sembra una brava persona, in fondo, ma è così riservato. Non sapevo insegnasse. Stava sempre a casa.
– E infatti, sapesse che storia. Quella donna gli ha praticamente rovinato la vita, povero Don Emilio.
Don Emilio?
– Sì. Era il parroco del mio paese d’origine. Conobbe quella Paola quando lei rimase vedova, abbastanza giovane, con due ragazzine da tirar su. Lui la prese a cuore. Il catechismo, le comunioni, l’oratorio. Insomma si vedevano spesso e se ne innamorò perdutamente. Venne scoperto e messo alle strette dal vescovo. Lasciò l’abito. Perse tutto. Si trasferì da lei. L’aiutò a crescere le ragazze, però in effetti non lavorava, non guadagnava, in una parola, faceva il casalingo. E lei dopo i primi anni d’amore e di vita insieme ha cominciato a farglielo pesare. Gliel’avrà rinfacciato. Così adesso, poverino, vuole cercare di riprendere ad insegnare un po’ di religione nelle scuole. Ma è difficile. Saranno passati dieci anni…
– Oh Dio, un prete e chi l’avrebbe mai detto? Speriamo bene per lui, ma lo chiamerò, lo chiamerò.
– Si, brava, lo chiami. E’ un povero uomo solo.

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