Anatomia di un ricordo

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Quando diede il primo morso al croissant la sfoglia della punta si sbriciolò sul piattino di ceramica bianca e sul cappotto. Guardò le briciole dorate sul nero della stoffa. Rimase per un attimo immobile, lo sguardo abbassato e il croissant sospeso a mezz’aria. Diede un altro morso e quando la marmellata all’albicocca scivolò sulla sua lingua, non appena ne sentì il sapore, le mancò il respiro.

La nascita di quel ricordo era dipesa completamente dal caso, era la forza di un ricordo prigioniero delle cose, e quella marmellata aveva resuscitato la complessità e la compattezza di un momento vissuto, con tutte le sue sensazioni, impressioni, rapporti, riflessi, echi.

Era lei seduta in un altro bar, in un’altra mattina, con la borsa appoggiata ai suoi piedi e il cielo che si faceva sempre più grigio, le prime piccole gocce che cadevano a stravento sui vetri delle ampie finestre che aveva davanti, il suo sguardo rivolto alla strada, dietro le spalle di lui.

Le aveva preso le mani sul tavolino che li separava stringendole forte.

“Sono felice”, le aveva detto con lo sguardo, senza sapere, senza contare, quante altre volte ancora si sarebbero rivisti.

Lei si era voltata senza dire niente, sorridendo, con gli occhi pesanti per il sonno, ogni centimetro del suo corpo stanco ma vivo. Non aveva mai voluto pensare che ogni volta avrebbe potuto essere l’ultima, e lui non aveva mai fatto domande.

Avevano galleggiato tra i giorni che non avevano numeri e le settimane che non finivano mai e le notti che scivolavano senza ore.

Tenendole le mani aveva cercato di tirarla a sé, di toccarla, in qualche modo, di vedere se era reale o se era solo una proiezione dei suoi occhi confusi. Avrebbe voluto sapere se un giorno si sarebbe dissolta nel nulla, volatilizzata, come un gas raro, nell’atmosfera, e lui avrebbe perso ogni tipo di contatto con la realtà.

Lei era reale, in quel momento, lo sapeva, ne aveva le prove, le briciole sul maglione e il fazzoletto infilato nella manica, il respiro leggero e il movimento del collo. Aveva bisogno di sentirlo, perché tutto, tutto sembrava surreale, fuori dal tempo e dal mondo.

L’aveva baciata alla fermata del tram, la silenziosa promessa, “ci vediamo”.

Lei si era allontanata sollevando la sciarpa sulla testa per non bagnarsi, mentre le strade avevano iniziato ad emanare il classico profumo della pioggia sull’asfalto, aveva guardato le porte del tram chiudersi davanti ed era scomparsa.

La marmellata all’albicocca l’aveva riportata a quella mattina, avvolgendola, strappandola dal presente in cui si trovava, e riportandola indietro, sempre più indietro, il suo passato si era esteso e dilatato, aveva allungato le braccia e l’aveva trattenuta qualche istante, giusto una frazione di secondo, anche se a lei era sembrata un’eternità.

In realtà nella sua testa si era svolto tutto in pochi secondi, il tempo di sentire il gusto, di deglutire, di vedere se stessa senza riuscire davvero a riconoscersi, guardandosi da dietro il vetro della finestra del bar, cercando di indovinare i suoi contorni e quelli di lui, mentre il sapore le era salito fino al naso e le era sembrato di respirare marmellata, e c’era la pioggia e loro due seduti uno davanti all’altro.

Era lei il suo passato. Era lei la pelle che aveva abitato, la sua, la pelle che aveva accarezzato, quella di lui.

Posò il croissant sul piattino, lasciò che le briciole cadessero ovunque, che la marmellata colasse e diventasse appiccicosa, si passò un tovagliolo di carta sulle labbra e rimase con lo sguardo perso nel vuoto.

Si era resa conto che non avrebbe mai più potuto mangiare un croissant alla marmellata di albicocche.

 

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