Primavera

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A mia nonna,
compagna di sogni.


Era primavera già da tempo ma Margherita non riusciva a percepirne la presenza. Dalla finestra della sua stanza, in cui trascorreva gran parte delle lunghe e monotone giornate, continuava ad osservare con scrupolosa attenzione il paesaggio davanti a sé: le montagne in lontananza, ancora innevate, che cingevano in uno stretto e soffocante abbraccio il piccolo paese in cui viveva, le distese erbose dei prati verdi e fioriti sui quali si apriva qua e là il volo di qualche bianca farfalla e gli alberi, le cui chiome già folte oscillavano al fresco vento; troppo fresco, pensava, per essere primavera.
Da meticolosa osservatrice qual era, Margherita faceva ricadere puntualmente la sua attenzione sugli abitanti di quel paesaggio, ognuno dei quali sembrava avere un gran da fare, rispettoso del proprio ruolo e dei propri spazi. Margherita aveva ormai come l’impressione di conoscerli tutti, uno ad uno, come la coppia di gazze dalle piume lucenti e dalle lunghe code,ma tanto la padrone indiscusse del giorno ed esempio di assolutismo: “E’ tutto nostro e guai a chi si avvicina!”, sembravano dire. Margherita le aveva scherzosamente denominate Victoria e Albert, dato il loro modo di fare sovrano. Erano solite posizionarsi, con le piume gonfie ed il petto in fuori, sul ramo più alto del vecchio noce che da anni ormai viveva solitario, sentendosi forse fuori luogo, in mezzo ad un centinaio di ulivi secolari dal nobile aspetto. Victoria e Albert, ad ogni modo, trascorrevano le intere giornate a controllare quel che si diceva essere il loro territorio e lo facevano con estrema dedizione e precisione, scacciando via chiunque provasse a valicare il confine: cornacchie, colombine, piccioni, picchi e soprattutto il gatto di casa, spesso vittima di attacchi diretti e offensive. Non erano rari i momenti di stress da gazza per il povero gattino malcapitato, se solo provava a schiacciare un pisolino all’ombra dell’attempato noce scattava subito la controffensiva ed il micio era costretto a fuggire via, onde evitare il becco appuntito dei due volatili. Il solo a non esser scacciato era un piccolo allocco che, non si sa per quale motivo, aveva scambiato il giorno per la notte. A volte, Margherita lo trovava appollaiato al mattino sul davanzale esterno della sua finestra, ignaro che fosse ormai sorto il sole. Le prime volte lei era rimasta meravigliata dal comportamento stravagante del piccolo rapace, ma con il passare dei giorni aveva iniziato a non porsi più domande, anzi occasionalmente interrogava direttamente l’allocco, come se potesse risponderle. Il fatto è che quando Margherita apriva le imposte, lui non volava via subito come se la stesse aspettando o cercasse anche lui una risposta al suo essere uccello rapace notturno che preferisce la luce del sole.
Le vere amiche di Margherita erano, però, le sue tartarughe; con loro sì che si parlava, si discuteva, ci si raccontava. Ascoltavano sempre con molta attenzione, girando la testolina alla ricerca della voce della loro amica.
In tutto questo Margherita, però, continuava a non vedere i segni della primavera. Ciò le generava uno stato di malessere diffuso, difficile da descrivere, che non le consentiva di vivere serenamente. Provava un misto di agitazione e tristezza, alternate a qualche raro momento di pacatezza, circoscritto agli ingressi trionfali nella stanza del suo gatto, affettuoso ed indifferente nel contempo da buon felino. Anche lui in realtà, ultimamente, avvertiva il senso di cupezza in cui versava l’animo di Margherita e così, spesso, trascorreva le ore raggomitolato accanto a lei o cercava di tenerla impegnata tra fusa, richiesta di cibo ed attenzioni. A Margherita ciò non dispiaceva, anzi era sempre più consapevole del fatto che quel gattino fosse parte integrante della sua vita, come tutti gli animali del pianeta. Forse era proprio per questo che non avvertiva la primavera quell’anno. Mancava qualcuno. Da giorni scrutava il cielo, ma delle rondini ancora nessuna notizia; quelle rondini che puntualmente arrivavano nel mese di marzo a casa sua. Una rondine ed il suo fedele compagno erano soliti costruire con grande fatica e maestria il loro nuovo nido in un angolo riparato del tetto, proprio sopra la cucina, laddove internamente correva il tubo della canna fumaria del camino. Per Margherita era diventata un’abitudine assistere con ammirazione a quello spettacolo di ingegneria naturale, fatto di ricerca accurata dei materiali da costruzione, operazioni laboriose di pesi ed incastri, nonché prove e controprove di resistenza fino alla nascita dei piccoli. La loro comparsa era anticipata da un’esagerata ansia dei due genitori espressa con vorticosi voli intorno al nido ed avvertita da Margherita attraverso un cinguettio continuo dalle cinque del mattino fino a sera, quando, scese le prime ombre, finalmente tutto tornava a tacere.
Era questo, dunque, che mancava a Margherita per sentire il suo cuore aprirsi alla primavera? Le due rondini non erano ancora tornate, né se ne vedevano altre. Qualcosa era sicuramente accaduto; qualcosa era cambiato. Che cosa?

Margherita se lo chiedeva tra sé e sé e ricercava con lo sguardo la risposta fuori dalla finestra oltre i prati, gli alberi e le montagne. Amava osservare, ascoltare, era abile ed attenta lente di ingrandimento con gli altri; sapeva cogliere, analizzare, descrivere e raccontare il mondo che la circondava in ogni minimo particolare, in ogni suono, profumo, odore, colore e forma. Conosceva alla perfezione il mondo fuori di sé. Allo stesso modo, era in perenne analisi con sé stessa: intervistava il suo animo, il suo cuore ed i suoi pensieri, cosciente del fatto che questi tre strumenti il più delle volte non erano in pieno accordo. Lei cercava imperterrita di mantenerli all’unisono, ma non riusciva mai nell’intento; le sfuggiva sempre qualche corda. Era in quei momenti che interiorizzava il fatto di essere più brava con gli altri che con sé stessa e probabilmente era questo il motivo per cui Margherita non percepiva ancora l’arrivo della primavera.


Aveva piovuto per tutta la notte e Margherita conservava ancora il dolce suono delle gocce di pioggia, che a ritmo cadenzato le avevano tenuto compagnia, al buio, mentre aveva invano cercato di dormire. Non era riuscita a socchiudere gli occhi neanche per un istante e di certo non per colpa della pioggia. La pioggia le piaceva, in fondo. Era una di quelle cose che la facevano tornare bambina, quando nelle giornate piovose ed uggiose si rintanava in casa della nonna accanto al camino acceso, quello grande con i mattoni rossi, in attesa che il temporale passasse. In realtà, l’attesa riguardava ben altro e in cuor suo Margherita sperava che quei momenti fatti di pioggia, vento e frastuoni potessero prolungarsi nel tempo; un tempo indefinito o sufficiente almeno a poter condividere con la nonna, racconti epici, avventure e vicende della sua vita passata. La nonna era per lei memoria, verità e custodia di un mondo che andava conservato e tramandato. Veri o meno, i racconti della nonna erano narrazioni realistiche, ricche di personaggi, luoghi, episodi storicamente accaduti e riconoscibili, aneddoti che Margherita ascoltava con grande attenzione e passione. Ogni volta quelle storie suscitavano in lei profonde emozioni e destavano ancor di più la sua curiosità sul come fosse stata la nonna da giovane. Le poche foto che c’erano in casa, non le rendevano pienamente giustizia. Non la ritraevano come Margherita effettivamente la vedeva e la immaginava negli anni giovanili. Avrebbe potuto trascorrere secoli seduta ai piedi della nonna Maria, catturando ogni sua parola, ogni minimo dettaglio e particolare. Si perdeva negli occhi verdi ed intensi di quella che un tempo era stata sicuramente una ragazza affascinante dai lunghi e folti capelli neri, dalle braccia robuste ma dai modi eleganti e rispettosi.
Sicuramente alcune aggiunte fantasiose la nonna le inseriva nelle sue storie, ma a Margherita non importava; quanto la nonna raccontava era frutto di esperienze vissute e dunque patrimonio da tutelare, insegnamento da apprendere.
Adorava quella donna, ormai in là con gli anni, ma ancora energica, lucida e sicura di sé; tutto il contrario di lei. Ma da quella donna forte, Margherita aveva ereditato la stessa capacità di raccontare, la stessa voglia di conoscenza delle cose e del mondo. Margherita era cresciuta con la nonna e di ciò ne andava fiera. Nonostante non avesse la sua vitalità fisica, la postura ed i modi imponenti, si sentiva molto vicina nell’animo e nella sensibilità a quella donna che, rimasta presto vedova, aveva conosciuto due guerre, cresciuto da sola sua figlia e condotto in maniera impeccabile gli affari di famiglia. Se da bambina Margherita adorava sua nonna, adesso da adulta provava una profonda ammirazione per colei che l’aveva sempre tenuta per mano. Si rammaricava di non averle spesso confidato di volerle bene; di non averle forse dimostrato abbastanza affetto e riconoscimento, ma sapeva che sua nonna sapeva. In questo era come lei.
A volte la incontrava in sogno o meglio in attimi, in cui lei le appariva con i suoi capelli grigi accuratamente raccolti, il suo vestito blu con il grembiule ricamato ed inamidato. La nonna era molto brava nel ricamo, nel cucito e in cucina. Questo Margherita non lo aveva ereditato. Solo la passione per la lettura e lo studio.
Ricordava quando, negli ultimi anni in cui la nonna era in vita, le chiedeva di leggere per lei qualche pagina presa qua e là da quelle storie, diceva, che ti aiutano a crescere: “Guerra e Pace”, “Delitto e castigo”, “Anna Karenina”, “Il Dottor Živago”. La preferenza per la letteratura russa della nonna era dichiarata, ma da dove provenisse quella passione a Margherita sfuggiva. La nonna sosteneva che leggere quelle storie le consentiva di compiere quel viaggio in Russia che lei aveva sempre desiderato.
Accadeva anche che la richiesta fosse ancora più particolare: l’Odissea. Il viaggio di Ulisse affascinava la nonna, così come proiettava Margherita in un vago naufragio attraverso la cicatrice dell’eroe omerico. In questo era tutta sua nonna.
Avrebbe voluto scrivere la storia di quella donna, un giorno. Non lo aveva ancora fatto; non ci era riuscita, forse perché la nonna era ancora lì presente. Il distacco definitivo non si era compiuto e Margherita si chiedeva se mai avesse potuto allontanarsi da quella presenza ingombrante, di cui sentiva ancora distintamente la voce, i richiami ed i brontolii.
Qualcosa in quel momento la fece trasalire. Un rumore? Un pensiero? Si rese conto di essere ancora a letto. Poca era voglia di alzarsi ma si fece coraggio. Aprì le imposte una alla volta e distrattamente osservò il paesaggio umido e nebbioso che il temporale aveva disegnato. Si spinse sul davanzale per asciugare l’acqua che era penetrata dagli angoli della finestra; alzò gli occhi e percepì l’arcobaleno. Era nitido, perfetto, come tangibile. Lo chiamò Hope, Speranza. Era un’abitudine ormai consolidata quella di dare un nome a tutte le cose, anche quelle che all’apparenza sembrano inanimate. Altra eredità, pesante, che la nonna le aveva lasciato.


C’era un solo papavero in mezzo al prato. Margherita non riusciva a vederne altri. Quella distesa rossa di un tempo non esisteva più, eppure la terra era stata lavorata e rimossa più volte, ma le piogge non erano state abbondanti durante l’inverno. Le uniche a resistere erano le margherite, quelle bianche e quelle gialle, insieme a gruppetti di viole che facevano capolino all’ombra dei grandi ulivi. Non crescevano più neanche le piantine di borragine, i cui fiori violacei erano delicatamente raccolti ed infilati lungo fili d’erba per mano di Margherita e delle sue amiche che, da bambine, si improvvisavano orafe artigiane. Collane, bracciali, anelli erano il loro passatempo preferito nelle giornate di sole, trascorse nel grande cortile antistante il piccolo gruppo di case in cui le bambine abitavano con le loro famiglie. Case, oggi, rimaste lì in attesa che qualcuno possa ridare loro vita. Il cortile serviva anche da piazza del mercato, messo su dalle piccole donne che puntualmente allestivano il banco per l’esposizione e la vendita dei preziosi gioielli alle mamme. L’acquisto avveniva solo a prezzi ragionevoli, vista l’effimera durata delle chincaglie. Pertanto, la fiera dei monili si concludeva con pane e marmellata per tutte le bambine. Questo era quanto le mamme erano disposte a pagare e questo era ciò su cui Margherita spesso rifletteva: i bambini erano felici con poco. Bastava il sorriso delle loro mamme e quella fetta di pane addolcito per far sì che i loro piccoli ma grandi occhi si spalancassero al mondo.
A Margherita tutto questo mancava. Continuava ad osservare quell’unico papavero rosso nel prato, che ora il vento dispettoso faceva agitare tra l’erba alta. Più alta era anche l’upupa che, tornata dopo l’inverno, di nuovo cercava di conquistarsi un piccolo spazio tra i rami dell’olmo non ancora rinverdito. E più alta era la vita, pensava Margherita tra sé. Come l’upupa, anche lei cercava da sempre uno spazio da far suo o uno spazio in cui sentirsi sé stessa, oltre i confini della sua stanza, della sua casa, del suo giardino e di quel prato, di cui ancora una volta coglieva la solitudine del papavero rosso. Non era lì per caso. Nessuno è dov’è per caso.
Margherita provava una sorta di ammirazione per quel fiore: lì, da solo al centro di tutti e tutto, senza paura a testa alta. Un po’ le ricordava sua nonna.
Il pensiero tornava a lei, di tanto in tanto, e Margherita realizzava che le mancava tanto, ma tanto la nonna le aveva lasciato.
Occorreva prendere coraggio e mettere in pratica ogni insegnamento senza indugiare. Il termine “pratica” era di difficile acquisizione nel vocabolario interiore di Margherita, però. L’atto concreto del fare innescava in lei moti vorticosi dello stomaco. Tutto era più semplice se limitato al fluire dei pensieri. Correvano via veloci quei pensieri; un andirivieni infinito, quasi privo di forma ma di grande consistenza. In alcuni momenti Margherita avrebbe voluto fermarli, arrestare quella tempesta di “se, ma, se poi, se avessi fatto, se avessi detto”, ma non c’era modo di farlo. Erano pensieri indisciplinati o meglio indipendenti, autonomi, energici e sicuri del fatto che Margherita, in fondo, non li avrebbe mai ostacolati. Erano i suoi pensieri. Amava viaggiare insieme a loro, amava ascoltarli e lasciarsi trasportare e sopraffare dalle riflessioni.
L’essere riflessiva, estremamente riflessiva, era un’altra eredità ricevuta dalla nonna.


La giornata non si prospettava all’insegna del bel tempo. Il cielo appariva velato ed il pallido sole sembrava avesse timore di uscire allo scoperto. Era ancora mattino presto e forse le cose sarebbero cambiate. Margherita aveva aperto come sempre tutte le finestre. Non faceva freddo, in realtà, e non c’era vento. Decise, dunque, di uscire. Aveva bisogno di respirare.
Il rituale della colazione era stato già compiuto, seguito dal solito lungo bagno caldo e profumato, dal quale Margherita non si asteneva mai. I capelli lavati, erano stati raccolti con cura dietro la nuca. Mancava la manicure, ma quella poteva aspettare. L’aspetto dello smalto sulle sue unghie era ancora piuttosto lucente, anche se quel colore era troppo acceso ed appariscente per i suoi gusti. Margherita preferiva le tonalità neutre, tenue e pastello per le sue mani, così come per il suo viso. Non era per il maquillage vistoso; un po’ di crema ed un filo di cipria erano le uniche cose accettabili per il suo volto. Quel volto che, negli ultimi tempi, Margherita aveva visto leggermente cambiato in alcuni tratti e non solo per i primi segni senili che si aprivano decisi agli angoli degli occhi, delle labbra e della fronte. Non aveva mai avuto una pelle candida e liscia come quella di sua nonna che, grande qual era, non mostrava sul viso il tempo inesorabilmente trascorso.
Assorta nei suoi intimi pensieri, Margherita nel mentre si era seduta sul letto. Contemplava quasi con devozione l’armadio aperto davanti a sé, come se qualcuno o qualcosa da lì dentro avesse potuto aiutarla nella ricerca del vestito adeguato da indossare. Non che ne esistesse uno perfettamente rispondente alle sue richieste, nonostante i capi di vestiario fossero numerosi e molti giacevano nei cassetti da tempo senza mai aver preso vita. Era sempre stata così: indecisa anche nella scelta di un semplice abito. Questo perché anche in quel caso tutto ai suoi occhi doveva essere in perfetto ordine, abbinato e cromaticamente uniforme. Un po’ come la sua esistenza. In realtà, lei non si sentiva affatto una persona ordinata e schematica, anzi spesso lasciava le cose qua e là, dimenticava o meglio rinviava la loro sistemazione, così come rimandava le decisioni, quelle difficili. Anche se, l’impressione che dava all’esterno era ben altra. Chi la conosceva o pensava di conoscerla, la riteneva un essere equilibrato, laborioso, dal fare organico ed attento. Una persona di cui ci si poteva fidare, questo dicevano. Margherita aveva, dunque, una sua pubblica personalità, per la quale era ritratta come un’abile progettista della vita, dell’ordine concreto e solido delle cose. La giovane donna, però, era consapevole di riuscire a programmare ed ordinare tutto, tranne i suoi indomabili pensieri. Non teneva a bada neanche la sua profonda sensibilità, che se da un lato le consentiva di vivere momenti di intense emozioni, dall’altro le generava turbamenti ed istanti sospesi e privi di respiro. La nonna le aveva sempre detto che la stella sotto cui era nata, le aveva trasmesso quel dono: la sensibilità. Avrebbe dovuto proteggerla e coltivarla con cura, perché non a tutti era concessa. Margherita non era pienamente d’accordo con quello che riteneva essere una dei tanti massimi sistemi della nonna, dato che quel nobile dono per lei era spesso causa di spasimi. In lei avveniva una vera e propria rivoluzione dei sentimenti, ogni volta che entrava in gioco la sensibilità, la quale avvertiva a sua volta il peso della riflessione. Per questo, avrebbe desiderato essere come sua madre: pragmatica e celere nel trovare la soluzione ad ogni problema. Per Margherita, invece, tutto assumeva la forma di un problema, anche il dover scegliere un vestito quella mattina.
Si scosse, vista la tarda ora, ed al volo infilò la solita mise color nero. Non che avesse ampia scelta: nel suo armadio predominavano il blu, il marrone ed il nero, con qualche spiraglio di beige e cammello indossabili solo in estate.
Uscì di casa, finalmente, senza avere però la minima idea di quale percorso intraprendere. Aveva solo voglia di camminare e prendere un po’ d’aria. Il cielo era ancora stranamente velato e dietro le montagne, le nuvole viola facevano presagire a breve un temporale. Non aveva portato con sé l’ombrello, non lo faceva mai, ma era sicura che la pioggia le avrebbe dato tregua e concesso una passeggiata. Sperava che non si alzasse il vento, così da poter fare due passi leggera, allontanando i tristi pensieri. Si fermò ad osservare un ciuffo di narcisi fioriti lungo il vialetto di casa. Non ricordava di averli piantati; forse nessuno lo aveva fatto ed il vento aveva compiuto la sua buona azione. Erano gialli come il sole, che quella mattina non ne voleva sapere di svegliarsi. Le tornarono in mente i versi di “Daffodils” di William Wordsworth:


I wandered lonely as a cloud
that floats on high o’er vales and hills,
when all at once I saw a crowd, a host,
of golden daffodils; beside the lake,
beneath the trees,
fluttering and dancing in the breeze. (…)

La letteratura inglese aveva sempre popolato le letture e gli studi di Margherita fin dall’adolescenza ed era spesso stata rifugio e consolazione per i suoi stati d’animo, nonché ispirazione per i suoi modi di essere.
Tra l’erba dell’aiuola Margherita intravide il suo gattino; lo chiamò a sé ma non ebbe risposta, tanto era indaffarato ad inseguire una povera lucertola, che cercava solo un po’ di calore sul muretto di recinzione e che mai si sarebbe lasciata catturare da Gonzalo. Così si chiamava il giovane felino, per via delle sue particolari zampette e la somiglianza al Gonzalo del “Gatto con gli stivali”. La scelta del nome non apparteneva alla fantasia di Margherita ma a quella di suo fratello, che aveva miracolosamente salvato il gattino dai pericoli della strada.
L’abbandono degli animali era cosa che Margherita condannava. Uscì dal vialetto e si richiuse il cancello in ferro battuto alle spalle. Sulla strada del piccolo borgo, tutta in salita, non c’era anima viva, né Margherita riusciva a sentire voci e rumori: solo il silenzio ed i suoni inconfondibili della natura.
Quel paese si era notevolmente spopolato. Un tempo quella stessa strada risuonava delle grida gioiose dei bambini, che correvano divertiti e spensierati come se ogni spazio del paese fosse la loro dimora. Non esistevano confini e proprietà, tutto era di tutti e per tutti. Le anziane signore erano solite sostare sedute sui gradini delle loro abitazioni, predisposte tutte in fila, e trascorrevano il tempo affaccendate nei mestieri più diversi: le sacre chiacchierate, il ricamo ed i cucito, la preparazione delle verdure per le minestre del prossimo inverno, il tutto accompagnato a volte dall’intonazione di qualche canto tradizionale, accennato dalle lavandaie di turno, che dal lontano lavatoio comune del paese facevano risalire le loro note. Se si prestava bene attenzione e si faceva silenzio era possibile sentire anche il tonfo dei panni bagnati che ricadevano nelle vasche. A nessuna di quelle donne, di quei bambini sembrava che il tempo scorresse. A nessuno sembrava la vita scorresse, pesasse.
Margherita sgranò gli occhi e si rese conto suo malgrado che quel piccolo mondo antico non c’era più. Il paese aveva perso la vivacità di un tempo; il cambiamento era evidente. L’unica cosa che rendeva ancora vivo il minuto borgo era la scuola e Margherita sperava tanto che almeno quella radice avesse continuato a germogliare. Si riteneva fortunata per aver avuto la possibilità di crescere in quell’atmosfera colma di semplicità ma di relazioni profonde e durature, di valori intramontabili e per questo era grata alla sua famiglia. I ricordi della sua infanzia felice le erano spesso di supporto.
Continuò il suo giro per il borgo tra le case, molte disabitate, che sembravano assopite. Alcune avevano le imposte aperte, ma degli inquilini nessuna presenza. Cercò, ad ogni modo, di trarre beneficio da quella breve passeggiata, respirando a pieni polmoni la frescura del giorno. Assorbire odori e profumi era altrettanto piacevole. Per questo Margherita proseguì con il naso all’insù. Qualcuno lungo i borghi della strada aveva da poco tagliato l’erba. A Margherita venne da starnutire. Questo era sintomo di primavera.
Avrebbe voluto scambiare il buongiorno con i passanti, ma intorno a lei non vedeva nessuno; eppure era un giorno qualunque della settimana. Le persone non avevano voglia di uscire, forse, o non facevano più caso ai giorni, Margherita pensò.
Sentì il rintocco del campanile: era mezzogiorno o mancava poco, visto che le lancette del vecchio orologio facevano fatica ormai a rispettare il ritmo e scandivano il tempo a loro piacimento. Gli abitanti del borgo, però, le conoscevano bene e non si lasciavano più ingannare dal loro modo di fare scherzoso. Il campanile sovrastava con la sua sagoma allungata verso l’alto tutto il paese e si prendeva cura dell’altrettanto anziana chiesa. Entrambi, quasi a braccetto, si affacciavano sulla piazza selciata ed insieme al medievale castello dalle alte torri dimostravano a tutti di essere loro i veri governanti del borgo.
Margherita decise, così, di tornare a casa per essere puntuale al pranzo. Non provava ancora alcuna sensazione di appetito, ma sapeva di non dover ascoltare lo stato del suo stomaco, in quanto non veritiero.
La strada in salita le pesava un po’ e di affrettarsi non le andava affatto. Riprese con calma il viale di casa e notò che la finestra della cucina era aperta: sua madre stava cucinando. I biondi narcisi erano ancora lì con le corone rivolte verso il cielo cinerino ed il suo gatto, stanco della battuta di caccia, dormiva beatamente all’ombra del timido gelsomino. La sensazione del sogno era svanita non appena Margherita aveva riconosciuto la voce ferma di sua madre. Il gatto ne doveva aver combinato una delle sue; dunque, Margherita non stava affatto sognando. Era trasalita e tornata in sé dopo essersi appisolata sulla poltrona di vimini accanto alla finestra dello studio. Tra le mani aveva il libro che stava leggendo: “Felicità” di Katherine Mansfield. Non era una lettura, in realtà, piuttosto una rivisitazione di pagine già apprezzate durante gli anni del liceo ed approfondite nel percorso universitario. Le grandi scrittrici e poetesse inglesi avevano da sempre cullato il mondo interiore di Margherita, che si ritrovava nei pensieri di quelle artiste, la cui penna abilmente delineava le architetture dell’animo. Alcuni testi, secondo il suo umile parere, andavano letti più volte nella vita, perché il punto di vista con cui si carpivano i messaggi, gli eventi e gli stessi personaggi, cambiava di volta in volta a seconda del mutato sguardo del lettore. Trasformato appariva anche il senso di appartenenza alle storie e dunque il personale coinvolgimento a fatti e vicende. Per questo motivo, Margherita solitamente riapriva volumi già conosciuti, nei quali ricercava quel dettaglio, quel sentimento o quell’emozione nuova che le erano sfuggiti, semplicemente perché in precedenza non aveva avuto lo spirito adeguato a cogliere certi particolari. Del resto, la vita era anche questo: cambiamento. E la letteratura stessa rappresentava una finestra dalle grandi vetrate aperte sul prato dell’esistenza. Era racconto di ampio respiro del mondo e dell’umanità intera. Si alzò, lasciando cadere lo scialle da cui non si separava mai nei momenti di lettura. Scese velocemente le scale per dirigersi verso la cucina, luogo dal quale erano provenute le risonanti parole di rimprovero di sua madre. La trovò intenta ad affettare le mele, tante mele gialle, circondata da uova, farina, zucchero e burro. Margherita capì, allora, che stava preparando la tradizionale torta, quella che terminava con una grande spolverata di zucchero a velo e che, a suo avviso, non sarebbe mai stata buona come quella originale della nonna. Evitava, però, di esprimere il suo parere ad alta voce ed ogni volta mangiava con gusto le fette di quel dolce che, come tanti altri, le regalava preziosi momenti d’infanzia.
La mamma la guardò appena, ma quello sguardo rapido e fugace, tipico di quella donna, bastò a Margherita per comprendere l’accaduto. Sul tavolo grande della stanza era ben evidente il passaggio maldestro di Gonzalo: il vaso di cristallo con i fiori freschi, che occupava il centro del mobile, era a terra sul pavimento di marmo bianco in frantumi. Non si percepiva la ben minima traccia del gatto, se non per le impronte lasciate dalle zampette bagnate dall’acqua rovesciata. Margherita, senza proferire parola, cercò di porre rimedio al fattaccio: raccolse ciò che rimaneva del vaso, prestando attenzione a non tagliarsi le dita, asciugò l’acqua e recuperò i pochi tulipani colorati rimasti integri. La mamma non mosse ciglio.
Sulla scena del misfatto continuava ad essere assente il colpevole. Come sempre in certe occasioni, preferiva restare latitante per un po’. Margherita lo cercò nelle stanze della grande casa e nel ripostiglio, dove solitamente si ritirava dopo aver compiuto guai, ma sembrava scomparso. La coda lunga, grigia e voluminosa lo tradì. Sbucava a sua insaputa da sotto l’antica credenza del salotto. Non era molto abile nel nascondersi. Quel mobile era appartenuto alla sua bisnonna e la mamma lo aveva fatto restaurare accuratamente. Lì conservava i servizi più buoni, diceva lei, ma a Margherita sembravano solo inutili cianfrusaglie che nessuno avrebbe mai utilizzato. Erano un po’ come quella biancheria, che la mamma definiva d’epoca, ormai ingiallita e dimenticata nelle ante più basse degli armadi. Si era sempre chiesta perché le famiglie al tempo avessero tutte quella strana ed insana abitudine o dir si voglia tradizione.
Il salotto di casa ospitava altri pezzi di antiquariato, che avevano tutti percorso la stessa strada: dalla bisnonna alla nonna, dalla nonna alla mamma. Margherita si chiedeva se un giorno anche lei avesse fatto parte di quella linea del tempo e se fosse stata in grado di gestire una casa così grande. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare il tutto da sola e ciò che la spaventava non era tanto la solitudine, quanto la burocrazia, per la quale non era affatto portata. Esorcizzava, tuttavia, le ansie accantonando per il momento quel pensiero.
Dei ricordi passati ciò che mancava in casa era la memoria del nonno: non un oggetto, un utensile, una foto a testimoniarne la presenza. L’unica immagine visibile era quella debitamente incorniciata e disposta sul comodino della stanza, in cui la nonna aveva trascorso gli ultimi anni prima di salutare con un abbraccio Margherita e la sua famiglia. La foto ritraeva il nonno in piedi accanto alla nonna Maria nel giardino di casa, laddove ancora oggi sostava la piccola fontana con le bianche calle. Tutto ciò che Margherita conosceva del nonno, lo aveva ricostruito con l’immaginazione attraverso quella foto, dalla quale emergeva ben poco, se non la figura di una donna in abito scuro che si imponeva su quella di un uomo dalla piccola statura, con i baffi neri, in maniche di camicia. La nonna era sempre stata restia a parlare liberamente della sua vita matrimoniale, forse perché, come lei sosteneva, non c’era nulla da raccontare. Rare volte aveva condiviso con Margherita eventi e vicende della sua parte sentimentale. Da questo punto di vista, la nonna non era affatto un libro aperto e Margherita aveva più volte cercato, senza successo, di strapparle qualche pensiero. Percepiva un senso di disagio sul volto, quasi mai sorridente in quelle occasioni, dell’anziana Maria. Le poche notizie riferite erano state sempre accompagnate dal postulato che nella vita le scelte vanno compiute autonomamente senza forzature con sentimento, razionalità e libertà di azione. Questa era sua nonna, figlia del primo Novecento.
Pertanto, Margherita non aveva osato mai chiedere oltre e tornare sull’argomento. Le dispiaceva non conoscere la storia esatta dei suoi nonni, così come si rammaricava di non aver mai incontrato suo nonno, scomparso prematuramente. Neanche sua madre aveva avuto modo di riceverne l’amore e l’affetto. Sapeva che il nonno aveva vissuto negli Stati Uniti; emigrato come tanti alla tenera età di undici anni. Aveva seguito i fratelli maggiori alla ricerca di una vita migliore di quella che la sua terra poteva offrirgli a quei tempi. Era riuscito a farsi una posizione, come si raccontava, e da qualche documento superstite rinvenuto in casa, Margherita aveva constatato che quell’uomo era stato al servizio dello U.S. Army con tanto di onori e riconoscimenti. Tornato in Italia, aveva sposato in seconde nozze nonna Maria, molto più giovane; un matrimonio combinato, sottolineava sempre la nonna, che poco si addiceva alla sua indole. Da questo Margherita poteva intuire tutto il resto. Le sarebbe, però, tanto piaciuto guardare le foto di quel giovane, che aveva avuto esperienza dell’America degli anni Venti – Trenta. Ne avrebbe apprezzato gli aneddoti, le vicissitudini e i vissuti. In cuor suo sperava che la nonna da qualche parte avesse conservato e lasciato nascosto uno scrigno con le immagini del sogno americano.
Il gatto, finalmente, sbucò da sotto la credenza e rimase immobile ad osservare Margherita con i suoi occhi verdi ed innocenti e la coda a forma di punto interrogativo. Il che significava una sola cosa: era giunto il momento del gioco. Margherita lo guardò e sorrise. Era più furbo di lei. Il tempo del rimprovero era ormai trascorso. Succedeva sempre così. In fondo, quel vaso non era di gran valore ed a Margherita non piaceva neanche tanto.


Il glicine quella mattina non aveva un bell’aspetto. La pioggia non era stata clemente con lui ed i suoi fiori apparivano arresi col capo chino, come i contadini che nelle campagne si inginocchiavano sui campi seminati davanti ai frutteti, i cui teneri germogli erano ormai marroni e rigonfi di acqua. Una primavera, quella, a cui mancava un fiore. L’alberello rampicante dal color viola aveva sempre predominato sulle altre piante del giardino per via del suo profumo intenso ed inconfondibile, al quale faceva concorrenza solo l’inebriante gelsomino. Erano posizionati l’uno di fronte all’altro, quasi a sfidarsi, e si contendevano api ed insetti vari, che lottavano per accaparrarsi un posto in prima fila tra i fiori più dolci e succulenti. Sua maestà il glicine aveva, invano, tentato l’arrampicata a danno dei compagni vicini, cercando di trasformarsi in un rigoglioso pergolato. Il prunus dalla chioma vinaccia, in realtà, aveva ben resistito e si era prontamente difeso dagli attacchi; il glicine, pertanto, aveva abbandonato il campo di battaglia. I due avevano firmato un armistizio. Il gelsomino, dal canto suo, era riuscito nell’intento e si era liberamente e prepotentemente sdraiato lungo tutto il muro che fiancheggiava il viale di casa. Forse, si vantava di questo successo, dato che quella mattina appariva meno triste e remissivo del suo dirimpettaio.
La pioggia si era ripresentata e l’emicrania di Margherita era preludio di un maltempo duraturo. A memoria, lei non ricordava un aprile così freddo e burrascoso, in cui c’era ancora bisogno del camino acceso in casa. Sicuramente, quel mese non era il solo colpevole degli eventi. Il decorso delle stagioni presentava evidenti cambiamenti: qualcuno o qualcosa era intervenuto ad inclinare i solidi equilibri della natura.
Margherita cercò un rimedio alla sua emicrania, la quale, ormai lo sapeva, non l’avrebbe abbandonata fino a sera. Aprì l’armadietto dei medicinali, ma le tornarono in mente le sagge parole della nonna, per la quale tutto era curabile con gli impacchi caldi di erbe medicamentose: malva, camomilla, ortica. Probabilmente, aveva ragione. Decise, allora, di non ingoiare alcuna pillola e si preparò un buon té affogato al limone. Le piantine di limone crescevano anch’esse in giardino e se ne stavano lì silenziose negli angoli più nascosti, dove erano state appositamente piantate, al riparo dal gelo e dal vento. Era il papà di Margherita ad occuparsene, non senza ascoltare le direttive della mamma. Da quando la nonna non c’era più, era lei a sorvegliare sulla vita della casa e dei suoi inquilini. Il timone della nave lo teneva saldo tra le sue mani e nessuno provava ad entrare nella cabina di pilotaggio senza il suo permesso. Il papà non lo avrebbe mai fatto; era un uomo docile ed evitava volentieri ogni tipo di discussione o conflitto. I battibecchi in casa avvenivano solo tra la mamma e Margherita; a volte erano veri e propri scontri che si risolvevano come tutti i litigi tra madre e figlia. In realtà, non che l’una rivolgesse scuse all’altra o intervenisse un abbraccio a celebrare il momento di pacificazione. Ci si limitava ad uno sguardo, lungo e profondo, per dichiararsi tregua reciproca. La mamma, del resto, non era propensa agli abbracci ed ai gesti cerimoniosi, come li definiva lei stessa. Margherita, a volte, pensava che la mamma soffrisse di qualche forma allergica alle manifestazioni di affetto o non avesse ben sviluppata la parte empatica della sua persona. Sapeva, però, che dietro quell’apparente rigidità si celava un cuore caldo ed accogliente. I modi di fare della mamma non erano propriamente raffinati, ma erano il frutto del suo vissuto ed il motivo di quell’atteggiamento si radicava in nobili ragioni. Margherita, comunque, le voleva bene, come si vuol bene a chi non ti avrebbe mai negato aiuto e protezione.
L’emicrania sembrava non placarsi e tormentava i poveri occhi di Margherita, che faticavano a restare aperti. L’assalì un pensiero: lo spettacolo teatrale. Quella sera sarebbe dovuta andare a teatro con le sue amiche. Avevano prenotato i biglietti per un musical già da diverso tempo. Il palcoscenico, la musica, la danza, gli attori, i costumi, le scenografie ed il pubblico: la messa in scena della vita, altra straordinaria invenzione dell’arte umana. Il dubbio restava sempre lo stesso: palco o realtà? In fondo, chi poteva dare la corretta definizione di realtà? Forse colui che poteva circoscrivere il concetto di normalità? Margherita riteneva impossibile categorizzare tali grandezze. La bellezza del mondo risiedeva nel fluire degli eventi, nelle analogie e assonanze degli esseri viventi e nella loro diversità.
Margherita e le sue due amiche, Anna e Giò, agli occhi esterni e distratti erano distanti tra loro per molti aspetti. Era una lontananza solo apparente e loro lo sapevano bene. Tutte e tre, a proprio modo indipendenti, avevano personali peculiarità ma i loro tratti si incrociavano e completavano in un unico e grande punto di incontro: il rispetto, la lealtà, la sincerità e la stima reciproca. Non si conoscevano da tanto, non erano quel che si dice “amiche d’infanzia”. Si erano trovate quando ognuna aveva già percorso un bel pezzo di strada, aveva avuto le sue esperienze ed i suoi trascorsi. Erano donne, dunque, con una loro personalità definita, matura e forse era proprio questo il motivo della loro sana amicizia. Anna era l’artista, la creativa, colei che da un piccolo oggetto dimenticato riusciva a tirare fuori un capolavoro. Aveva ingegno, manualità e dalle sue idee nasceva la bellezza. Giò era il lampo, il tuono, il vortice che ti coinvolgeva e trasportava via. Solida, tenace, brillante e capace di mediare in ogni situazione, anche in quelle più difficili. Intelletto puro, arguto ed energico che metteva in campo in tutto ciò che faceva. La parte filosofica e testardamente riflessiva era tutta riservata a Margherita. Tra loro c’era sintonia. Ognuna prestava attenzione agli spazi dell’altra. Margherita si rammaricava di non averle incontrate prima, ma ogni cosa accade quando deve accadere ed ora era felice di averle accanto.
L’intuizione che la serata mondana avrebbe dovuto aspettare, divenne sempre più certezza a causa del persistente mal di testa. Le sue amiche compresero.
Si prospettava una frugale cena con i suoi genitori e la speranza di un po’ di riposo notturno. Stranamente non aveva neanche voglia di leggere o forse le mancavano forza e concentrazione. La sua stanza l’attendeva silenziosa al buio.
Orlando, così Margherita ormai chiamava l’allocco che dimorava nel canneto del suo giardino, aveva già fatto risuonare il suo richiamo. Lei era decisa ad andare a letto in compagnia di una calda tisana alla melissa. Suo fratello era seduto in quell’angolo della casa da lui ritenuto il suo studio, tra il salotto e le stanze da letto. Era preso da ciò che meglio gli riusciva: dipingere. Da lontano, sul cavalletto, Margherita vide la tela su cui si muovevano velocemente i pennelli, guidati dalle mani robuste del pittore. Non riusciva bene a capire cosa stesse ritraendo. Di sicuro un paesaggio o una veduta di qualche nota località italiana. Si avvicinò senza disturbare: era Firenze. Il giovane artista proseguì il lavoro, assorto nei suoi colori, nelle sue sfumature, nei suoi giochi di luce e nelle sue linee spezzate. Margherita ne riconosceva il talento. Lei aveva studiato pagine e pagine di storia dell’arte con interesse e passione. Aveva avuto esperienza diretta sul campo dei capolavori monumentali del Bel Paese, l’Italia, in cui viveva, ma le sue capacità grafico-pittoriche lasciavano molto a desiderare. Lasciò quel quadro compiersi attraverso l’estro di suo fratello e gli augurò la buonanotte, mentre Gonzalo giaceva raggomitolato ai piedi della tela, quale spettatore sonnecchiante.
Le lenzuola avevano un buon profumo di lavanda, che avrebbe conciliato il sonno di Margherita, conferendo torpore ai suoi pensieri. Si distese ed aprì il libro che teneva sul comodino: “Addio alle armi” – E. Hemingway. Dopo poche righe disse addio anche alla sua emicrania.


Il canto un po’ stonato di Geremia, il gallo del vicino, distolse il flebile sonno di Margherita, prima ancora che la sveglia suonasse. Aprì gli occhi, ora più leggeri dopo la fastidiosa emicrania. Non aveva bisogno di guardare le lancette per capire che ore fossero: erano le cinque. Geremia era un galletto affidabile e la sua puntualità era cosa ben nota a tutto il quartiere. Pertanto, Margherita poteva restarsene ancora per qualche istante sotto le coperte. Il suo riposo fu, però, di nuovo interrotto dall’acuto di un anonimo gallo, che da lontano molto educatamente rispondeva al richiamo del suo compagno. Con molta probabilità il baldanzoso viveva nell’aia di un piccolo gruppo di case, disposte a semicerchio sulla collina di fronte, dove un tempo, nel mese di giugno, si poteva assistere ad un incredibile spettacolo a cielo aperto. I versanti rivolti verso il paese ed affacciati sul piccolo santuario dedicato alla Vergine, a cui tutta la comunità del borgo era devotamente legata, si ricoprivano del manto dorato delle spighe di grano. Nonostante quel quadro si ricomponesse ogni anno, come se ci fosse la mano di qualcuno a ritrarne i contorni ed i particolari, Margherita restava sempre attonita e meravigliata davanti a tanta bellezza. In mezzo a quella distesa aurea Margherita ammirava la variazione delle tonalità dorate, che da intense e brillanti divenivano più sottili ed ombrate, quando qualche nuvola passeggera disturbava i raggi del sole. Gli uccelli planavano felici su quel biondo mare e nessuno osava distoglierli dal loro volo, dalle loro pose perfette e dalle loro discese sulle infiorescenze. Non esistevano spaventapasseri né trappole filanti. Quello era e doveva essere il ciclo della natura. Il grano era anche mietitura e Margherita ricordava sempre divertita i pomeriggi trascorsi con la nonna e le comari del vicinato che, sedute in tondo nel cortile, con destrezza agitavano i grandi setacci per raffinare il grano, dopo averlo energicamente battuto nei giorni precedenti. Momento di duro lavoro, che si traduceva in condivisione della fatica e del buon umore per il proficuo raccolto. Era anche quella occasione per riconoscersi reciprocamente come collettività attenta ai propri bisogni ed al proprio benessere. Lo spazio stesso ed il tempo erano comuni, così come comunitaria era la storia delle famiglie del borgo. Tanti tasselli, gli abitanti, che si incastravano alla perfezione, dando vita ad un mosaico brulicante di voci: il paese, di cui ognuno era parte integrante, essenziale ed attiva.
Margherita anche quella mattina si alzò, mossa da buoni propositi e spinta sicuramente dal concerto dei due galletti canterini. Il loro verso trillante e vivace le regalò un sorriso. Non poté esimersi dal guardare fuori dalla finestra verso quella collina, dove ora al posto del grano conquistava terreno l’incolto, a volte lasciato al pascolo di qualche mucca. Ormai erano ben poche le famiglie che possedevano bestiame, come altrettanto poche erano quelle dedite all’agricoltura. Non si vedevano più gli estesi campi coltivati dai confini regolari e definiti, popolati da uomini e donne chini verso la terra, intenti a lavorare tra i solchi bruni, sotto il sole con le braccia arrossate, i capelli arruffati ed i grandi fazzoletti sulla testa. Quella terra tufacea e collinare attraversata da un piccolo corso d’acqua, affluente del fiume principale che scorreva nella sottostante valle, rappresentava tutta la loro ricchezza. Non sfilavano neanche più per le strade i carretti trainati dai docili asinelli. La nonna ne aveva avuto uno un tempo. Margherita lo ricordava bene e sorrideva al pensiero di quel mite animale, assiduo lavoratore, che apprezzava le sue carezze di bambina e mai si lamentava se oltre al carico di fieno, doveva sorreggere anche il suo peso. La capacità di adattamento degli animali era sorprendente. Quell’asinello aveva tante volte trasportato anche le pesanti ceste di uva durante la vendemmia, altro momento che scandiva le stagioni delle famiglie, compresa quella di Margherita. Dietro questa attività, come in tutte le altre, si palesavano lavoro e fatica per diverso tempo, resi impercettibili attraverso racconti, risate e tavolate imbandite in mezzo al prato, che emanavano profumo di pane fresco, uova e formaggio. In quei giorni l’aria sapeva di mosto. A Margherita non piaceva quell’odore, lo riteneva troppo forte ed acre. Non amava andare in cantina ad assistere alla trasformazione dei grappoli in vino. Preferiva starsene nel prato a cercare le piantine di cicoria, che in quel periodo crescevano in abbondanza tra i filari del vigneto. La mamma le aveva insegnato a riconoscerla tra le altre erbe selvatiche.
Quel ricordo la fece riflettere: ancora oggi non beveva vino, non usava condire i piatti con l’aceto e non mangiava uva, mentre gradiva il pane fresco fatto in casa farcito con la cicoria di campo. I suoi gusti non erano cambiati. Il cambiamento aveva, invece, interessato il vigneto, che da tempo non dimorava più, fiero, accanto agli ulivi nel grande prato, in cui Margherita aveva osservato, sperimentato ed imparato a riconoscere i meccanismi perfetti della natura. Suo papà aveva deciso di tagliare via i filari, poiché si riteneva ormai anziano per poter seguire da vicino anche la vendemmia. A Margherita mancava il vigoroso abbraccio di quelle tenaci viti, che con tempra e resistenza si erano sempre mantenute legate le une alle altre, radicate alla vita.


Il piccolo roseto rampicante emanava un vigoroso profumo quella mattina. Le sue roselline bianche erano sempre sbocciate tutte insieme e da lontano assumevano le sembianze di una nuvola a pois, dato che qualche fogliolina faceva capolino tra le fitte chiome. Anche il centenario nocciolo, che cresceva di fronte, ammirava la bellezza delle rose tanto da dispiegare in avanti le sue larghe foglie verdi, come a voler punzecchiare le corone di quei fiori regali che lo mettevano in secondo piano, nonostante la sua maestosità. Il roseto era cresciuto sul muro laterale di quell’edificio oggi comunemente detto dependance, ma che per Margherita e la sua famiglia rappresentava semplicemente la casetta. Quest’ultima era sempre stata il regno della nonna Maria. Era qui che trascorreva le giornate affaccendata ed era qui che dava vita ai suoi capolavori: torte, dolci di ogni tipo, pasta all’uovo, pane e pizza. La casetta ospitava un grande camino ed il forno a legna, la cui gestione era riservata unicamente alla nonna; era proprietà privata. La stessa preparazione del forno per la cottura era compito esclusivo della nonna, la quale si occupava personalmente di tutte le operazioni e non lasciava avvicinare nessuno, in quanto a suo avviso gli altri membri della famiglia non erano del mestiere. Quella minuscola casetta, oggi usata come semplice deposito di mercanzie varie, per Margherita sapeva ancora di marmellata, di pane e pizza appena sfornati, di lievito madre e di ciambelle, quelle che la nonna impastava per la Pasqua. Erano alte, morbide e soffici all’interno, con la crosticina zuccherata in superficie. La loro preparazione richiedeva tanti passaggi e tanto amore e Margherita ricordava come la nonna le lasciasse lievitare per una notte intera, tenendole al caldo sotto pesanti coperte. Raccomandava a tutti di non toccare nulla fino al mattino seguente.
Sui bassi gradini di accesso alla casetta Margherita aveva banchettato le merende più buone della sua infanzia. In lei raffiorava ancora il sapore delle grandi fette di pane scuro, che la nonna bagnava e ricopriva senza fare economia con zucchero o pomodori e basilico. Questi ultimi, insieme a tanti altri frutti della terra, venivano coltivati nell’ampio spazio adibito ad orto, sul lato destro della casa, tra gli ulivi e le piante di alloro. Ogni ortaggio aveva il suo riquadro dedicato e nei mesi estivi quello spiazzo si colorava di buono. I pomodori, assieme ai fagioli e fagiolini, spiccavano per la loro altezza sorretta dalle canne, in mezzo all’insalata, alle melanzane ed ai peperoni. In autunno ed in inverno, invece, l’arancio delle zucche gareggiava con il verde chiaro degli imponenti cavolfiori. Ogni casa del borgo possedeva il proprio orto, presente anche in quelle abitazioni del centro storico, che si affacciavano sulla strada e sulla piazza del Comune. Gli edifici avevano tutti un fazzoletto di terra retrostante, nel quale non mancavano mai prodotti genuini da portare in tavola. Gli orti erano unitamente disposti lungo il versante meridionale della collina su cui sorgeva il paese; collina non particolarmente alta, ma ben riconoscibile dalla valle e dai paesi circostanti, in quanto sovrastata dalle torri merlate dell’antico castello, un tempo dimora e roccaforte dei signori locali; baluardo a difesa, dunque, del territorio e di quell’arteria percorsa da quanti dovevano spostarsi tra Roma e Napoli. Il borgo in cui viveva Margherita sorgeva, infatti, su una delle alture che popolavano l’ampia Valle del Sacco, a sud della capitale, città eterna. Margherita era pienamente consapevole del fatto che quel territorio aveva subito profonde trasformazioni. Ormai appariva come un continuum edificato, privo dei numerosi orti e campi che in passato assorbivano i raggi del sole, l’acqua delle piogge e si lasciavano accarezzare piacevolmente dal soffio del vento, che si incanalava tra le piccole gole delle montagne messe lì a protezione della valle e dei suoi abitanti. Era quella una terra battuta dai secoli e dal lavoro degli uomini di ogni tempo e di ogni nome. Margherita avrebbe potuto scriverne la storia, come per la vita di sua nonna, ma al momento la cosa le sembrava più grande di lei. A quel territorio aveva dedicato la ricerca per la sua tesi di laurea; uno studio corposo, che l’aveva tenuta impegnata per ben due anni. Un impegno piacevole, però, per Margherita che amava le scienze storiche, antropologiche e geografiche. Un lavoro incentrato, ovviamente, solo su alcuni specifici aspetti e caratteri dell’area in questione, riferiti ad un periodo storico lontano: il Medioevo. Nulla a che vedere, dunque, con la storia millenaria di quelle vivaci colline, abitate già da civiltà più antiche. Margherita si sentiva fortemente legata a quella terra, a quel paesello, come lei stessa lo definiva, nonostante avesse trascorso anni lontano da lì per motivi di studio e lavoro. Era sempre tornata, però. A volte si rammaricava di ciò, perché la realtà circoscritta del borgo le stava stretta, così come asfissiante a volte risultava l’esagerata chiusura delle menti. Ma quella era la sua terra, la sua gente; quella era la sua lingua o meglio il suo dialetto; una variante linguistica che Margherita apprezzava e considerava bene culturale da conservare e valorizzare. Lei stessa usava spesso le espressioni dialettali; le mettevano allegria ed era fermamente convinta che alcune situazioni potessero essere spiegate e rappresentate solo in dialetto, lingua più diretta ed immediata. Quell’idioma era fattore veicolante tra lei e la nonna, tra lei e le sue amiche d’infanzia. Così come la terra di appartenenza, anche la lingua con i suoi termini, i modi di dire, le locuzioni, i proverbi, le capacità espressive, le formule ed il sentimento si poneva a metà strada tra Roma e Napoli. Anche in quel caso si era verificata un’evoluzione: alcune parole arcaiche erano cadute in disuso, altre erano state sostituite e solo le persone più anziane restavano le vere custodi di quella ricchezza. Un valore che secondo Margherita doveva necessariamente essere tramandato, quale caposaldo dell’identità comune alla popolazione del borgo. Quale poteva essere il grado di appartenenza ad un luogo, alla sua gente, alle sue tradizioni e dunque alla lingua, attraverso la quale ogni individuo ed ogni collettività esternava la propria esistenza? Questo era quanto Margherita si domandava. Sapeva bene di far parte di quella comunità e della sua memoria, pur se l’animo spesso avrebbe preferito staccarsi da terra e levarsi liberamente in cielo, come i tre falchi che in quel momento volteggiavano leggeri sui tetti dalle tegole marroni del suo paesino. La libertà risiedeva nella propria mente; ciò era ormai chiaro a Margherita.


Scese giù in giardino ed il profumo del roseto era davvero coinvolgente, tanto che Margherita decise di sedersi a leggere sotto l’ombra del nocciolo, così da potersi abbandonare tra le pagine romanzate del suo libro e l’effluvio dei bianchi fiori. Ne derivava una sensazione gradevole, delicata, fascinosa e quasi incantata. Le voci ed i soliloqui ricomposti in un unico fiato de “Le onde” di Virginia Woolf, paradossalmente le garantirono la giusta quiete. Il momento fu letteralmente interrotto e spezzato dal veloce balzo del gatto, che d’improvviso saltò giù dal vaso sul quale si era comodamente appisolato. Un movimento, a Margherita impercettibile, aveva destato e richiamato l’attenzione di Gonzalo, che prontamente con le orecchie drizzate era accorso sul luogo deputato: l’aiuola più grande nel centro del giardino, dove sorgeva l’elegante magnolia. Gonzalo sostò per un po’ sotto quell’albero col muso ed i grandi baffi all’insù. Margherita pensò avesse adocchiato una delle solite colombine che facevano la spola tra la magnolia ed il fico poco più in là. Pertanto, non diede peso al movimento frenetico del suo gatto, fin quando Gonzalo, salito sul muretto che circondava l’aiuola, iniziò a miagolare ripetutamente in direzione di Margherita. Era il suo S.O.S. Margherita, controvoglia, si alzò e mosse parole di finto rimprovero nei confronti del gattino, che l’aveva fatta scomodare senza una buona ragione. Gonzalo fece tutto ciò che era in suo potere per far capire a Margherita cosa stesse accadendo: miagolii, lamenti, saltelli, colpetti con la testolina grigia sulle caviglie, ma lei continuava a non capire. Soprattutto, non riusciva a vedere nulla tra i rami dell’enorme albero che si ergeva davanti a sé, se non i fiori bianco-crema, che la mamma aveva fortemente voluto in giardino, in quanto simbolo di dignità, perseveranza, bellezza e fortuna.
Di certo la sua vista non era quella di Gonzalo. Pensò, allora, di aspettare, fidandosi dell’istinto del micio. Le rimbalzarono in mente dei versi, delle parole: “L’attesa del piacere è essa stessa un piacere”, ma in quel momento non ricordava a chi appartenessero. Era G. E. Lessing, “Minna von Barnhelm”; altra intima lettura degli ameni tempi universitari.
Si sedette anche lei sul muricciolo, accanto a quello che era ormai divenuto il suo confidente. Il gattino, immobile, mantenne una posa attenta e guardinga. D’un tratto qualcosa si mosse; il vento tra le foglie, pensò Margherita, ma dall’agitazione di Gonzalo, che aveva iniziato nervosamente a mordicchiarle il braccio con il suo savoir faire, doveva trattarsi di qualcosa di più importante del soffio di Eolo. Margherita interpellò gli occhietti vispi del suo compagno che, come se avesse compreso le richieste della sua amica, la spinse con gesto felino ad osservare meglio quanto accadeva sulla sua testa. Margherita alzò lo sguardo ancora incerto ed aprì quanto meglio potesse i suoi miopi occhi. La direzione giusta non era la magnolia dalle lucide foglie verdi, bensì un angolo riparato del tetto spiovente, che copriva la casetta con i suoi canali in terracotta e le sue travi di legno. Quella sporgenza sbucava con estrema precisione da dietro l’albero, sotto il quale Gonzalo con giudizio l’aveva trattenuta. Due testoline piumate di color pece spuntavano da un nido costruito con mirabile ingegno: le rondini erano finalmente tornate. Gonzalo aveva percepito prima di Margherita la primavera, eppure lei, la primavera, l’aveva da sempre custodita dentro di sé, in quanto insita nel suo nome: Margherita, ovvero fiore dai candidi petali bianchi con il cuore giallo che ricorda il sole, l’innocenza, la purezza dell’illustre stagione, in cui il mondo si apre al risveglio, alla luce, alla liberazione ed alla speranza.

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