Tra baratro e cielo

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Le gocce di pioggia colano dal finestrino dell’auto come lacrime. Il tassista, che con una mano si gratta energicamente la nuca scura e con l’altra gira il volante per svoltare a destra, si lamenta del tempaccio, sbruffando. Io non rispondo. Mi limito a distendere le labbra in quello che dovrebbe sembrare un sorriso. Ma so che non lo sembra. So che non lo è.

– Siamo arrivati –

Mi dice il prezzo della corsa, gli do i soldi e scendo, senza salutare. La pioggia mi bagna i capelli e questo mi piace terribilmente. A passo lento, mi avvicino all’entrata. Vorrei ritardare il più possibile l’appuntamento con il dottore, vorrei che fosse stato concordato per domani, dopodomani, un mese. Anzi, vorrei che non fosse mai stato fissato. Mi riparo sotto la tettoia, accanto all’ingresso principale e do un’occhiata all’orologio: sarei dovuta salire già sette minuti fa. Scrollo le spalle e accendo la mia Marlboro light, pensando che qualche minuto di ritardo non abbia mai fatto male a nessuno. Aspiro il fumo come per saziarmene e, straordinariamente, non mi metto a pensare a quello che mi aspetta; mi guardo intorno e il giardinetto di fronte a me, bagnato ma rigoglioso, mi regala un’insolita, forse agognata vitalità. Sorrido. Questa volta, riesco quasi a vedere me stessa dal di fuori: la chiostra dei denti è in piena evidenza, il mio viso è luminoso, raggiante, gli occhi sono limpidi e sembrano tranquilli.

Fingi di sentirti bene, ma sei una fottuta perdente.

Quella voce.

Deglutisco e, in un attimo, non riesco più a vedere il mio sorriso. Sento solo che i miei occhi sono sgranati, come se fossi in una stanza e qualcuno, improvvisamente, avesse spento tutte le luci, lasciandomi in balia del buio più nero.

Grida. Grida, Sirya! So che vuoi farlo. Che muori dalla voglia di gridare.

Mi porto una mano alla testa, come se avessi appena ricevuto una martellata. Getto la sigaretta nemmeno a metà, la strofino con la suola delle ballerine e, respirando compiutamente, entro in ospedale. Spaesata, mi guardo intorno, in cerca della reception; non appena l’ho individuata, mi avvicino.

– Buongiorno. Ho un appuntamento col dottor Liguori. –

La segretaria, capello corto e rosso, mezza età, aria stanca, odiosa e repressa, mi fissa in modo davvero poco professionale, come se si aspettasse qualcosa da me.

– Lei è? –

Oh, certo. Il nome.

– Sirya Misani.-

Controlla al suo computer e, mentre lo fa, l’aria professionale sembra esserle tornata, mentre quella odiosa e repressa non l’ha lasciata un attimo.

– Quarto piano, studio 56 –

Decido di non ringraziarla. Mi volto e premo entrambe le mani sul petto, come se potessi fermare i battiti convulsi del cuore. Una terribile agitazione s’impadronisce del mio respiro, che non riesce a diventare regolare.

– Stanza 56. –

Sono davanti alla porta, che è di quel celeste tipico degli ospedali. Prima di bussare, tento ancora una volta di fare un respiro compiuto. Niente da fare. Do tre colpi a pugno chiuso e un ‘avanti’ lontano e cortese mi spinge ad abbassare la maniglia.

 

***

 

Liguori mi accompagna alla porta. Mi stringe la mano sorridendomi e strizzandomi l’occhio.

– Andrà tutto bene, non si preoccupi. –

Mi passo la mano rimasta libera tra i capelli, lottando con me stessa per non eccedere, per non gridare che so benissimo che sia tutto un complotto. Mia madre e Liguori. Mia madre e questo dottorino dal camice bianco e immacolato, dall’aria fottutamente rassicurante.

Mi lascia la mano. Continua a sorridermi.

– A martedì. –

Annuisco, cercando di non incrociare i suoi occhi indagatori, invadenti. La sanno lunga, quegl’occhi lì.

Al piano di sotto, la segretaria è intenta a spalmarsi una buona quantità di rossetto rosso scarlatto: piega le labbra con destrezza, le protende davanti al piccolo specchietto tondo e, dopo uno sguardo compiaciuto rivolto alla sua immagine, resta a fissarmi. Mentre mi sistemo il foulard al collo, la guardo, irritata.

Anche lei lo sa. Tutti sanno che sei una perdente. Tutti sanno che sei pazza. Te l’ha detto anche il dottore. Il dottore che complotta con tua madre. E la segretaria sa di quel complotto. Per questo ti guarda così. Sirya…

Un blocco improvviso al petto m’impedisce di respirare. Snodo il foulard appena sistemato e lo metto in borsa. La hall mi sta stretta. La segretaria continua a fissarmi e vorrei gridarle di lasciarmi in pace, di non attraversarmi con quello sguardo che mi deturpa, che mi violenta. Quel rossetto… quel rossetto troppo vistoso, troppo rosso, che sembra sangue. Improvvisamente, le pareti bianche della hall iniziano a diventare rosse. Sangue ovunque, dello stesso rosso di quel rossetto. Strizzo gli occhi, li chiudo, poi li sgrano.

Sangue.

Ancora quel sangue. Alzo la testa: dalle sette lampade al neon attaccate al soffitto, sgorga una cascata rossa. Mi sposto verso destra per salvarmi e cado addosso a qualcuno.

– Signorina. Si sente bene? –

Deglutisco la saliva in eccesso, mi ricompongo e mi accorgo che i muri sono tornati puliti. Le lampade al neon emanano la loro luce forte e bianca. Fisso quella signora sulla settantina, elegante, apparentemente benestante, fine, con lo sguardo tra l’incredulo e il preoccupato e le perle – sicuramente vere – al collo.

– Scusi. Ho avuto un mancamento. Sto bene. –

La signora sospira e mi sorride, salutandomi con un elegante cenno della testa.

La guardo allontanarsi e noto che tutti mi fissano. Dio. Devo aver attirato l’attenzione cadendo addosso a quella donna.

Vattene. Corri via. Anche camminare sulla corsia di un’autostrada sarebbe meglio che stare qui dentro. Tutti ti guardano, perché tutti sanno chi sei.

Vorrei dire a quella voce di sparire per sempre. Già, tutto è iniziato da qui.

leggi la seconda parte del racconto

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