La leggenda de “u criatur” dell’alta Murgia

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di Palma Lavecchia
“Sto organizzando un giro sull’alta Murgia, sei dei nostri?” La voce squillante di Carlo mi stava proponendo, in realtà, una gita davvero interessante dal momento che io, pugliese di nascita, della Murgia conoscessi poco quanto niente. E dopo appena qualche giorno ci incontrammo, con alcuni amici ed esperti conoscitori, all’ora più suggestiva: quella del tramonto.

E’ incredibile come la campagna conquisiti immediatamente: per i suoi numerosi scorci, i colori vivaci, le forme selvagge, rese ancora più nette dalla luce radente di un sole che lentamente se ne andava a morire.

Lasciate le macchine, tutti assieme percorremmo la via mediana, una strada suggestiva e meravigliosa che congiunge Montegrosso a San Magno. Ognuno di noi era come inebriato da tutta quella valanga di odori delle erbe selvatiche e dai sapori delle more mature, nonché dalle ombre e dalle forme di certe piante, di certe pietre, di certe alture. Chiacchierando ed ammirando, il gruppo passeggiava allegramente, mentre io mi ero trattenuta pochi passi più indietro per scattare alcune fotografie. Quando, ad appena pochi passi da me, scorsi il profilo di un bambino che mi fissava da dietro un albero.

In un primo momento ebbi un sussulto, era l’ultimo essere che mi sarei aspettato di vedere in quel luogo. Ma poi mi accorsi di quel suo sguardo indifeso e triste e capii che non c’era nulla di cui avere paura. Era sporco, questo sì: il volto, minuto ma tondo, era percorso da ampie striature di terra, così come anche i piedi, nudi su quelle pietre. Il bambino se ne rimaneva immobile a fissarmi da dietro l’albero, e indossava solo un gilet e un paio di pantaloni ormai troppo corti per lui, entrambi scuri e consunti.

Rimanemmo così a fissarci a lungo, non volevo spaventarlo, desideravo che capisse che non gli avrei fatto del male, perché a giudicare dal suo sguardo era chiaro che cercasse innanzitutto conferme. Mi chinai, portando i miei occhi alla stessa altezza dei suoi e li vidi così somiglianti a quelli liquidi di tanti bambini della sua stessa età che ci arrivano dalle zone più disagiate e remote della Terra. Lui poggiò una manina sulla corteccia e con un piedino si fece di poco avanti.

“Come ti chiami? – gli chiesi – E con chi sei, qui?” Non mi rispose, si ritrasse. Allora pensai di andargli incontro, di fargli una carezza, perché forse non parlava la mia stessa lingua, forse si era smarrito e… E come feci per avvicinarmi, lui si nascose dietro l’albero. ‘Non devo spaventarlo’ pensai – ‘lo raggiungerò piano piano’, e mi avvicinai lentamente, parlandogli con dolcezza.

Ma quando raggiunsi l’albero, mi accorsi che non c’era nessuno. Mi guardai attorno smarrita, non poteva essere: lo avevo visto bene, quel bambino era ad appena tre passi da me, con ombre scure di tristezza dentro gli occhi e macchie di terra e pianto sulle guance. Invece niente, non c’era niente; non c’era nessuno.

Un ragazzo del gruppo, uno dei più esperti di quelle parti, accorgendosi che ero rimasta indietro, mi raggiunse per chiedermi se stessi bene e si accorse della mia espressione fortemente turbata.
“Era qui, io l’ho visto!”
“Chi hai visto?”
“Un bambino. Avrà avuto cinque o sei anni, era vestito di pochi stracci scuri ed era sporco e scalzo. Ma non appena ho fatto per avvicinarmi, è… è scomparso!”, dichiarai con voce tremante.

Il ragazzo mi guardò e io pensai che sarebbe stato più che giustificato a credere che fossi matta, tanto che ad un certo punto abbassai lo sguardo, quasi vergognandomi di quel palese vaneggiare.

Invece sorrise. “Hai visto quello che qui la gente del posto chiama ‘u criatur’ – e riavuti i miei occhi nei suoi, prese a raccontare – La leggenda narra che una nobildonna del posto, figlia di un ricco possidente, sia rimasta incinta, forse di uno dei fattori, e che quando lo avrebbero scoperto i genitori era ormai troppo rischioso indurla ad abortire. Il padre l’avrebbe rinchiusa nella loro sontuosa casa e quando la ragazza partorì, si assicurò che venisse seguita in gran segreto da chi, poi, si sarebbe anche occupato di sbarazzarsi del bambino. Il piccolo, minuto e dall’incarnato scuro, fu abbandonato davanti al monastero di Calendano, una bellissima struttura di pietra non molto distante da qui, nelle campagne tra Ruvo e Corato, dove i frati lo trovarono alle prime luci dell’alba infreddolito e avvolto in una copertina ancora sporca. Consapevoli di non poterlo tenere lì e che quella creatura abbisognasse delle amorevoli cure di una donna esperta, si narra che lo avrebbero ceduto, dopo qualche settimana, ad una famiglia di pastori del basso Abruzzo che ogni anno, come da tradizione, scendevano per la transumanza e che nell’occasione erano soliti far visita al monastero. Monastero in cui il piccolino si sarebbe recato anche negli anni successivi quando, in compagnia della sua famiglia, faceva ritorno nella nostra Terra e, oltre alla transumanza, collaborava ad un consueto scambio dei loro prodotti con i nostri: in particolare, loro portavano baccalà, formaggi e altre tipicità e da qui prendevano olio e olive. Ormai cresciuto, mentre il padre badava al bestiame, il bambino raggiungeva da solo le case per vendere ‘porta a porta’ quei prodotti. Quell’anno, però, pare che lui avesse origliato un dialogo tra i genitori adottivi e fosse venuto a sapere che la sua vera madre era, in realtà, una nobile del posto. Allora, forse preso dalla curiosità e dal desiderio di ritrovarla, si era allontanato nell’entroterra a lui sconosciuto, dove più di uno lo avrebbe notato per ore fermo a fissare le carrozze che transitavano. Finché di lui se ne sarebbero perdute definitivamente le tracce. Neppure il corpicino sarebbe stato mai rinvenuto”.

Ero rimasta come inebetita per tutto il tempo ad ascoltarlo. Quindi mi stava dicendo che quel bambino era un fantasma?

“Sì – rispose come leggendomi tra i pensieri – e si palesa solo ad alcune donne, forse perché il suo spirito vaga ancora nell’eterna ricerca della sua vera mamma. Sai.. in diverse giurano di averlo visto seduto sul muretto del monastero, proprio dove, durante i periodi che trascorreva qui, andava a rinfrescarsi e a bere premute di agrumi che i frati, molto affezionati a lui, ogni giorno gli preparavano”

Poi, indicando gli altri, propose: “Vogliamo andare? Credo ormai ‘u criatur’ abbia capito che non sei tu la donna che sta cercando, per cui non tornerà. E qui ci sono ancora un mucchio di cose da scoprire!”


E aveva ragione. La Murgia è come le bambole matrioske, con un incedere di sorprese, l’una dentro l’altra, anche se io più degli altri avevo ricevuto in dono quella più forte di tutte, e per la quale ancora prego ogni sera.

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