Non eravamo noi Racconti un po' folli

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Volevi stringermi le braccia al collo per appenderti al mio respiro. Come un soffio il vento mi saluta affidandomi parole e pensieri che ancora non riesco a distinguere dal mormorio della gente.

C’è un silenzio vibrante tra noi che colora l’aria di sfumature. Quando presi le tue mani nelle mie, avvertii chiaramente un sorriso sulle labbra espandersi dal cuore per accarezzare tutta la pelle in un istante di tepore. Le tue labbra erano rosse, i tuoi occhi neri, lontani e profondi come fossero assorti in chissà quale pensiero o preoccupazione, come fosse una questione di tempo e di distanze.

Avevi dita sottili che mi conficcavi nei fianchi a tradimento per vedermi sobbalzare irritato, e allora furbescamente con aria ingenua e innocente mi facevi sprofondare nei tuoi lineamenti per annegarmi di dolcezza con le tue movenze da gatta. Quando scherzavi, invece, scimmia urlatrice, e quando ti infuriavi drago di Komodo. Eri esagerata nel tuo non sapere esattamente chi fossi. Allo
stesso modo anch’io mi cercavo sfidandoti per confrontarmi allo specchio degli assurdi comportamenti che adottavo. In parte lo facevo per assicurarmi una via d’uscita se le cose si fossero messe male. E poi, in fondo, avevo semplicemente paura che tutto divenisse troppo serio e che il nostro giocare assieme degenerasse in un altro ingombrante dovere.

Eri bella di aspetto perché particolare nel tuo saperti valorizzare in quei presunti difetti che ti rendevano unica e speciale agli occhi di tutti, ma soprattutto di te stessa. Li esibivi quei difetti
con orgoglio e superiorità. Eri fiera nel passo, a volte addirittura austera nello sfoggiare quegli assurdi maglioni fatti da te che nessun altro avrebbe avuto il coraggio di prendere in considerazione
se non a carnevale. Su di te erano indossati con classe.

Sapevi camminare con tacchi che slanciavano la tua femminilità, e allo stesso tempo con scarpe da tennis compiere enormi passi quando parlavi camminando in un bosco o tra le vetrine in cui ti
riempivi la bocca di capricci. Allora bambina ti impuntavi battendo a terra i piedi per un’altra borsetta in cui stipare tutti i “vorrei” che ti passavano per la testa. A volte erano futili pretesti per fare la pace dopo un litigio che sapeva tanto di finzione.

E se io distante mi discostavo, cercavi ovunque la mia mano. Se non la trovavi nella tasca, allora preoccupata scendevi con me dove sprofondavo per indicarmi una semplice via d’uscita. Per
stringermi un momento in un momento difficile, per ricordarmi che nessuno è solo e che ogni cosa ha la sua ragione di essere compresa.
Adoravo starti addosso sulle coperte tra il divano. A volte rimanevi seppellita dai cuscini quando ti addormentavi di botto dopo aver tanto insistito per quel pallosissimo film di cui tu vedevi solo la
prima parte ed io poi affascinato non lo mollavo costasse tutta la notte. Alla mattina intontito, con la tazza di caffè, dovevo raccontarti la trama e spesso variavo il finale se ti sentivo di cattivo umore per strapparti un sorriso alleggerendo la giornata.

Mi stupiva sempre la determinazione e l’impegno che mettevi in tutto ciò che facevi. La forza, la delusione, il provare e riprovare anche quando massicci muri ti bloccavano la strada. Ridevo come
un pazzo quando facevi ginnastica fissando un dolcetto attraverso la vetrina considerando ad alta voce se compiere il delitto di sgarrare o concederti una coccola per il cuore.
Leggere, scrivere mentre dipingevi e poi recitare. Un po’ di sport, un sacco di tempo in riva al mare. La montagna d’estate per il verde e di tanto in tanto d’inverno per potersi isolare e poi
riscaldare. Amicizie per cui eri sempre, forse troppo disposta, sempre in bilico, sempre aperta a provare, a trovare un contatto, a riallacciare un rapporto o consapevole di un addio per rendere liberi i legami e le promesse. Sembravi comprendere come funziona il mondo e perché la gente si comporta come si comporta. Non volevi giudicare limitandoti a soffrire.
E quando c’era lo sconforto, perché noi lo ripetevamo che sono poche le cose che contano per davvero, ma sembrano essere tutte le altre a opprimere; e quando le distanze sono state enormi e gli oceani non erano più nei nostri occhi, ma mari in tempesta che impedivano il reciproco approdo; e quando la propria sofferenza non compresa diveniva uno sfogo sull’altro e ogni discorso, ogni parola è già sentita, e ogni entusiasmo esaurito quando il fuoco si spegne senza nemmeno più languire perché la cenere ha soffocato anche il singhiozzo del pianto; e quando fuggire diventava la prassi e rientrare a casa un peso insostenibile; e quando ogni scusa ti tiene altrove purché sia lontano e distante da ogni parola, abbraccio o passione… beh… non c’era proprio più molto da dire.

Non è stata sempre colpa nostra rinunciare all’ardore, così stanchi e frustrati, così arresi a volte da non riconoscere nemmeno i nostri volti sciupati. Quando ogni preoccupazione ti rapisce ricattandoti con svariati pretesti e discorsi e parole finte e finte azioni. Quando compi gli stessi gesti e poi divano, passi trascinati e silenzi dicendo che va tutto bene, ma in realtà non va affatto.

E così quel primo abbraccio, quel bacio caldo come un tramonto sul mare, quel desiderio di invecchiare insieme in quel famoso “fin che morte non vi separi”, diviene così distante e remoto che
dubito di me stesso e di te, di quella volta e di quella brezza di pensieri e di brividi di emozioni perché forse, semplicemente, non eravamo noi o non lo siamo più stati.

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