L’ordine monastico degli addetti stampa

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di Paola Lombardi

Non ho mai capito per quale ragione ci siano addetti stampa che osservano la regola dell’arrogante silenzio. Più che portavoce, essi somigliano a monaci che difendono il mistero della loro fede. L’altro giorno mi sono ritrovato faccia a faccia con l’uomo che gestisce la comunicazione per un ateneo di provincia. Attraverso il corridoio e arrivo all’ultima stanza in fondo sulla sinistra.

Busso contro la porta socchiusa. Nessuna risposta, ma sbircio la presenza di qualcuno all’interno. Busso una seconda volta. Finalmente, dall’interno della stanza risuona la voce incredibilmente infantile e squillante che squittisce “entri, entri”. Mi faccio coraggio e comincio a spiegare che lavoro per un giornale locale e che abbiamo qualche difficoltà nello scambio di informazioni con l’università perché i comunicati stampa non ci vengono recapitati. Insomma mi lamento ma cercando di mantenere un livello di collaborazione potenziale aperto. Finisco il discorsetto che mi ero preparato e scende il silenzio.

L’addetto stampa mi guarda e sbotta: “Io i giornalisti non li ho mai sopportati, mi fanno sempre richieste impossibili. Comunque quello che mi doveva dire me l’ha detto e adesso se ne può anche andare”. Resto incredulo e abbastanza privo di parole con cui ribattere a certe affermazioni. Quindi batto in ritirata e faccio finta che non sia accaduto nulla. Dopo due settimane arriva una e-mail dall’ufficio stampa dell’ateneo che dice: “In data 8 corrente mese, l’Ateneo aprirà le porte agli studenti di domani per un open day”. Ricontrollo la data: siamo al 12 corrente mese.

Al che cerco il numero di telefono dell’addetto stampa che ovviamente non è a corredo dell’e-mail appena ricevuta. Il cellulare squilla ma non risponde. Provo al numero fisso e sento la sua incredibile voce infantile: “Di cosa vuole lamentarsi?” Resto spiazzato. “Vorrei far notare che abbiamo ricevuto l’invito per l’open day a quattro giorni dall’open day”. “E allora? Voleva avere informazioni sull’ateneo, le ha avute mi pare”. “Per curiosità quanti studenti hanno partecipato?”.

Dall’altra parte sento una specie di mugolio: “Tanti, tanti, tanti”. “E può dirmi se ci sono foto e se è successo qualcosa di particolare?”. “Sì – asserisce il portavoce – ci sono foto che sono state pubblicate su un giornale regionale”. “Ah quindi il giornale regionale è stato informato in tempo dell’open day, tanto da partecipare?” chiedo piuttosto incredulo. “Sì, li abbiamo avvisati, collaboriamo da tempo”. “Capisco” e intanto mastico amaro. “Senta scusi, ma per le prossime iniziative pensate di avvisarci quattro giorni dopo?” c’è una punta di fastidio nella mia voce appena percettibile.

Dall’altro capo del telefono il gigante con la voce in falsetto puntualizza: “E chi può dirlo, potremmo anche non avvisarvi proprio”. “Ah, grazie è stato gentile da parte sua avvisarci, mi raccomando, anche la prossima volta verremo a bere un aperitivo in facoltà molto volentieri”. “Si figuri, ho fatto quello che era mio dovere fare, e comunque non si servono alcolici in facoltà e non credo di averla invitata all’aperitivo”. “Davvero? Eppure sono convinto del contrario, la saluto cordialmente”. Dopo qualche giorno ricevo un sms: “Mi scuso per la tempestività, il rettore intende salutare la stampa con un aperitivo, l’appuntamento è tra un’ora”. Mi sono sentito un veggente che ha visto nella mente del monaco che ha fatto voto di silenzio.

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