La lunga strada

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Quando ho imboccato la strada che portava al luogo che tanto avevo cercato, avevo circa sei anni.
Non è esattamente un luogo definito, forse si potrebbe chiamare scopo ma non saprei se sia giusto dargli un nome.
Certe cose non possiedono un’etichetta, non hanno forma, eppure crescono: vivono e muoiono se si è fortunati prima che riescano a consumare tutto quello che trovano sulla loro strada.
Quel giorno è lontano ma ricordo che un filamento della lampadina all’interno di ognuno di noi si ruppe. Un tonfo sordo ma comprensibile come le grida in fondo all’animo di chi non ha orecchie per sentire ma un cuore che non conta più i suoi battiti.
Ero sola, non fisicamente, lo ero in ogni altro frangente: non mi sentivo protetta, mi mancava la sicurezza per volare.
Ho capito molto presto cosa la vita si aspettasse da me e non era quello che ero. Se regalate ad una bambina una busta di soldatini, difficilmente sarà in grado di apprezzarlo, anzi non lo farà affatto.
Io ero la busta di soldatini e tutti sappiamo dove finiscono o come vengono considerati i regali indesiderati.
Non potendo restituire il pacchetto, si viene sballottati, presi a pugni e calciati via quando si è finito di far notare che non si è graditi. Certo, nessuno lo farebbe in pubblico perché non si devono conoscere i granelli di polvere che vivono sotto al tappeto ma è la realtà degli oggetti indesiderabili.

In quei frangenti hai una sola opzione: puoi scegliere la vita che hai o i coltelli di casa. Hai pochissimo tempo e la lampadina ha iniziato a rompersi; se lasci che il tempo scorra inizi a farti delle domande e le risposte sono echi lontani in lingue che non conosci. Le lancette scelgono per te, prendi quello che hai e menti.
Inizi a mentire a tutti, non importa chi essi siano: va tutto bene, non c’è nessun problema. Ti scopri che sorridi a comando e cerchi di comportarti come fanno tutti gli altri ma tu non sei gli altri, sei un soldato vestito da principessa e pizzi. Nonostante gli sforzi, la stoffa è estremamente leggera e si strappa con facilità e ti ritrovi ad osservare gli sguardi attorno a te… speravi che nessuno avesse sentito lo strappo?

Ti guardano attoniti, sei circondata da un branco di aguzzini che dovrebbero insegnarti che va bene sbagliare e invece l’unica cosa che devi sapere è come vergognarti.
Leggi la paura nei loro occhi mentre si chiedono come quell’orribile cosa, che avevano impacchettato con così tanta cura, sia riuscita a venir fuori della scatola che avevano ben confezionato. La loro reazione è feroce: la cosa deve tornare da dove è venuta, sono pronti a prenderti a calci pur di fartelo fare. Quando hai procrastinato scegliendo di vivere hai saputo che ti saresti piegata mentendo, di nuovo, a te stessa. L’unica soluzione che hai è ammorbidirti, perdere le ossa, ascoltare in silenzio e aprire il Vuoto in modo che ti ricopra e ti porti via.

Ho sperato tanti anni che il vuoto mi ricoprisse e mi portasse via ma se Lucifero è costretto a vivere in un luogo dove i suoi piedi sono incastrati e non può smettere di sbattere le sue enormi ali, perché a te dovrebbe essere destinata sorte diversa? Non era lui il prediletto di Dio? Tu non sei niente, neanche il Nulla ti vuole con sé.
Allora fingi, ancora.
Ti vesti di pizzo sventolando bandiera bianca e ordendo piani di sconfitta del nemico.
Impari a camminare sui tacchi e ad usarli come stiletti, impari anche a sparare ma non puoi pretendere che il pizzo non puzzi di polvere nera. Sei stata scoperta e sei ancora più sbagliata di prima. Il tuo compito è stare nella scatola, punto.
Ti permetti di ricominciare di nuovo e ancora, fino a che di te non rimane solo un brandello di pizzo rosa e l’immagine sfocata di un volto che non è mai stato tuo: lo specchio infranto dei ricordi di qualcun altro.

Ricordo il giorno in cui la scatola si è rotta e sono potuta fuggire, non avevo altre catene se non quelle che non potevo vedere. È l’inizio di un giorno nuovo: avrei potuto respirare in cima ad una montagna e lasciare che l’aria primaverile mi riempisse i polmoni ma sono come un cucciolo che ha conquistato la libertà dopo anni di prigionia.
Puoi scegliere una maschera, modellarla sul tuo volto e fare finta di essere qualcuno che non sia mai esistito, uno spettacolo fantastico per i partecipanti a questo eterno luna park. Il trucco, se ben steso, nasconde qualsiasi cosa, forse.
Dopo anni nelle profondità, avevo raggiunto la superficie e ogni cosa era investita di luce. Ero uscita dagli abissi e potevo tornare a cantare ed essere umana per la prima volta in vita mia.

La luce, le onde e l’orizzonte sono aperti a tutte le creature, alcune suonano melodie suadenti, ti blandiscono e ti rendono partecipe del loro mondo splendente e, in un attimo, sei pronta ad affidargli le catene invisibili che ancora trattengono le tue caviglie. Il Vuoto, che pensi di poter abbandonare, urla e si dispera, si prepara a scomparire dalla tua vita quando con voce profetica ti abbraccia per l’ultima volta sussurrando: “Tornerai da me con le catene e con un’altra chiave”.
Una scatola è sempre una scatola anche se assomiglia ad una stanza calda e accogliente: ero in balia del mondo dorato di qualcuno che guardava la realtà attraverso uno specchio che non rifletteva altri che se stesso. Molto presto lo scoglio a cui mi ero aggrappata divenne bocca di squalo e ho permesso che mi dilaniasse le carni, lasciandomi sanguinante nelle acque salate. Il Vuoto venne a salvarmi, gli ho restituito le mie catene e la mia carne a brandelli. Insieme abbiamo costruito una scatola più stretta con un’altra chiave dorata dove nascondere lo scrigno: saremo vissuti su un caldo letto di petali di rosa sbocciati dal sangue versato.
Il Vuoto è una coperta strana, non ti copre mai del tutto. È diventato, negli anni il custode del pozzo in cui ho nascosto la mia anima e lui ha le chiavi dello scrigno del mio cuore: gliele ho consegnate io e sa dove premere per farmi male visto che, in tanti anni, sono stata io a spiegargli come farmi tornare nella scatola.
Nonostante la fuga, non ero altro che quello che mi avevano detto di essere: una luce incrinata e bagnata da laghi di pianto, con le caviglie legate da corde di sogni infranti.

Quando si nasce soldato, non importa di cosa sia fatta la tua divisa: ci ho messo anni e cumuli di pelli mutate a comprenderlo.
Una mattina ti alzi, lavori sulle tue paure e incertezze continuando a cambiare la pelle.
Il mio amico Vuoto si è riempito di scatole e possiede tutte le chiavi, io ho guardato in lui e lui ha preteso di guardare in me. Abbiamo trovato un equilibrio instabile ma sono un insieme di luce e vuoti e credo che nulla potrà cambiare questo.
Non è facile accettare di avere un intero se stesso con cui fare i conti; quando ci si muove le catene strisciano e fanno rumore ma sarà per questo che trovo pace solo nella musica.
Ero una bambina quando avrei voluto alzarmi ed urlare e mi sono trovata costretta ad appiattirmi per non fare rumore, sono stata io a cercare il Vuoto perché volevo sparire ma desideravo che ci fosse qualcuno a farmi compagnia.
Ero una giovane donna quando, non sapendo vivere in uno spazio aperto, ho dato le redini della mia esistenza a qualcuno che le ha sbranate lasciandomi alla deriva e con solo una scatola rotta a cui tornare. Ci sono stati momenti, lunghi attimi di esistenza non realmente vissuta in cui la mia maschera di allora ha preso vita e ha deciso che avrei potuto sentire sulle guance il tocco del metallo e la ciclicità delle ruote. Avrei rinunciato al Vuoto e il nulla sarebbe apparso portandomi via, era il pensiero più dolce che avevo in quel periodo.
È complicato dire cosa mi ha fatto cambiare idea, in realtà non sono sicura di saperlo: ad un tratto è spuntata una dolce ragazza impaurita dai capelli biondi e dalle orecchie a punta, mi ha chiesto di aiutarla e quando nasci soldato non puoi rifiutare una richiesta simile.
Lei si chiama Anarynia, non è fantastico che il suo nome significhi “mio sole”? Insieme abbiamo dato luce al nostro cammino e ognuna ha sorretto il Vuoto dell’altra. Quando ci siamo conosciute, lei era una ragazzina spaventata e io vivevo guardando in faccia l’uomo con la falce, ora lei è una donna che ha creato le sue regole e ha insegnato a me come farlo.
Quello che è vero è che ci siamo salvate la vita a vicenda, non trovo altre spiegazioni.
Ora sono una donna per alcuni versi più matura, per altri molto più bambina di quanto lo fossi al momento adeguato e vivo confezionando scatole e adornandole di piccole targhette per ricordarmi di quale brandello di anima ci ho lasciato dentro. Alcune sono andate bruciate nella speranza che trovino pace, mentre altre le ho affidate totalmente al Vuoto: lui sa cosa farne.
Non sono perfetta e mi appiattisco ancora contro le pareti ma lo fanno tutti, chi lo nega mente.

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