La finestra

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di Manuel Crispo
Nella finestra della mia stanza c’era il bosco.

Un capriccio della memoria me lo restituisce bianco, di un bianco lattiginoso e irreale. Come potesse quella piccola finestra quadrata, obliqua per la pendenza del tetto, contenere in sé quel vasto insieme di tigli, di gelsi, di olmi, chiari contro la notte scura, era per me un autentico mistero.

Nella finestra della mia stanza c’era il bosco e io lo guardavo come si guarda un tesoro, con la coda dell’occhio per non sciuparlo.

Su una pietra chiara, proprio sotto una tendina di foglie a forma di cuore, un vecchio rospo gracidava alla luna, agli acquitrini, alla rugiada che già imperlava gli steli d’erba. Mia madre stava accanto a me, mi indicava il grosso anfibio e mi teneva il braccio come temendo che potessi sfuggirle da un momento all’altro per gettarmi in pigiama nella notte gelida sferzata dalla bora. In salotto, al buio, mio padre guardava la tivù e non parlava.

Fuori, nel bosco bianco dentro alla mia finestra, sul sasso sotto le fronde dell’albero, la bestia cantava e io gridavo in risposta a quel canto. A volte, facendo schioccare la lingua come una frusta, acchiappava un insetto, una zanzara, una farfalla notturna. La bestia gonfiava le gote. Non so se poteva vedermi, se seppe mai che io ero lì, che la guardavo, sempre dentro alla finestra ma dall’altro lato, al capo opposto di una linea invisibile, di un tubo invisibile a forma di finestra.

Non ricordo di aver preso sonno quella notte. Sarei restato lì a guardarla anche fino all’alba o fino all’ora dei cartoni e anche oltre. Ma ricordo d’essermi svegliato nell’ammasso di coperte sudate, una o due ore prima del mio solito, e come prima cosa ricordo di essermi sollevato per piazzarmi con le mani premute contro il vetro freddo, la guancia contro il vetro freddo, gli occhi contro il vetro freddo a spiare il bosco. Il rospo era ancora lì, immobile, e non gracidava più.

Corsi in cucina. Mio padre beveva il caffè e sfogliava un giornale di cronaca. Mia madre s’affaccendava ai fornelli, rimuginando su cose gravi che io, bambino, non potevo capire. La pregai di accompagnarmi fino al sasso sotto l’albero dalle foglie a forma di cuore.
«Il rospo non sta bene» spiegai. Mia madre m’infilò dentro una tuta da neve e mi decorò con galosce e giaccone e berretto di lana nera. Percorsi quei pochi metri ballonzolando come un astronauta su un pianeta alieno. Lontano, un merlo fischiava rabbioso un motivo sconosciuto.

Il rospo era morto. Il suo gracidare, capimmo allora, era stato un canto di morte. Mia madre rientrò in casa e ne uscì con una zappetta, un piccolo arnese da giardinaggio che non avevamo mai avuto occasione di usare. Insieme scavammo una piccola fossa.
Il cielo era pallido. Il dorso dell’animale era di un verde più chiaro di quel che potevo pensare o sopportare. L’odore della terra. Il prudere della lana. Il fischio del merlo.

Il bosco non stava più nella mia finestra, ora era tutto intorno a me. Dalla porta socchiusa, mio padre fumava una sigaretta e ci guardava senza dire niente.

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