Il padrone

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Come ogni giorno gli uomini si erano recati in piazza mentre era ancora buio. Di lì a poco sarebbe sorta l’alba, e cosa più importante sarebbe arrivato il padrone a reclutare manodopera da collocare nelle varie attività giornaliere. Era un rito che consentiva ai più forti di sfamarsi insieme alle proprie famiglie. Le donne rimaste a casa avevano pure loro iniziato a organizzare le faccende domestiche non senza prima aver innalzato al cielo una preghiera affinché mariti, figli e familiari tutti trovassero lavoro anche per quel giorno.

Il padrone possedeva i due terzi delle proprietà del paese e nelle sue terre aveva bisogno di potatori, mietitori, vendemmiatori, zappatori e di ogni altro genere di bracciante agricolo. Ma ne richiedeva due e se ne presentavano in dieci, ne voleva venti e diventavano cinquanta… A volte chiudeva un occhio, altre volte entrambi, ma tutti i giorni la stessa storia non poteva continuare. Lui aveva delle responsabilità e poi non intendeva disperdere quanto aveva accumulato con fatica. Doveva, per giunta, anche dar conto agli eredi. “No!” disse deciso per convincersi mentre arrivava sulla piazza. Scese dal suo giovane cavallo la cui sagoma scura iniziava a delinearsi con le prime luci dell’alba e lo legò vicino alla fontana che zampillava acqua fresca, il solo rumore che si udiva nelle vicinanze. Per un attimo gli sembrò di percepire anche il battito impaurito del cuore degli aspiranti braccianti, tutti schierati come un plotone d’esecuzione. Il padrone rivolse a loro una rapida occhiata e si sentì sollevato, ad occhio e croce si erano presentati nel giusto numero. Rischiava di restare fuori solo un ragazzo. Era uno spilungone che viveva da solo con la madre, il padre era morto in guerra. Era talmente magro che sembrava di profilo. “E che gli faccio fare a questo?”, esclamò il padrone “Una botta di vento e se lo porta…”
Il ragazzo implorava più con lo sguardo che con le parole. “Per favore”, riuscì solo a farfugliare “mamma è a casa e non sta bene”. Poi fu sul punto di scoppiare a piangere.
“Tua madre non sta bene”, pensò il padrone senza dirlo “tu invece sì!”

È dura fare il padrone quando non ne sei capace, a volte è meglio fare il bracciante, puoi sempre rimetterti alla divina provvidenza. Lo spilungone fu assoldato. Pensa e ripensa su cosa avrebbe potuto fare, il padrone lo mise a portare avanti e dietro il suo secchio d’acqua fresca nel quale metteva frutta e vino.
Lo spilungone entrò nel cuore del padrone che a ottobre gli fece pigiare l’uva insieme agli altri.
Poi arrivò il freddo di novembre e tante donne dei paesi limitrofi salutarono le proprie famiglie e si trasferirono per qualche mese a casa del padrone per la raccolta delle olive. Pane e companatico a pranzo e la sera il pane intinto nel vino e ognuno a raccontare le storie vicino al fuoco con le caldarroste belle fumanti.

Una mattina il cielo era più terso del solito. Il padrone era in groppa al suo cavallo sul punto più alto del paese. Scorse la città sottostante ancora addormentata e vide gli scheletri dei nuovi appartamenti in costruzione che nel giro di qualche decennio avrebbero trasformato tutto in una giungla di cemento. Fu allora che sentì dentro di sé forte il sapore dei tempi che passavano, il sapore amaro della sconfitta della civiltà contadina che si materializzava sotto ai suoi occhi.

Bruno Di Placido

Volontario della V.d.s Protezione Civile di Cassino, impegnato in vari aspetti del sociale, lettore e, da qualche anno, anche scrittore con un’ambizione dichiarata: riuscire a fondere ragioneria di cui vive e prosa con la quale sogna.

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