Ginjinha

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di Tamara Barigaldi
Quel liquore stucchevole che assaggiasti mesi fa in Portogallo, sorridendo per la foto di rito che avresti cancellato un paio d’ore dopo dalla memoria della fotocamera, convinta di sembrare troppo buffa, troppo goffa e decisamente troppo vecchia per quel genere di scatti.

Quello stesso liquore che avresti regalato a lei con l’intento di farle una sorpresa, prima di scoprire che Mara aveva lasciato l’appartamento – il vostro piccolo bilocale, quelle due stanze che ormai chiamavi nido, rifugio, casa – approfittando della tua assenza e dedicandoti un paio di righe su un post it appiccicato sul tavolo, di fianco alle chiavi.

“Mi dispiace. Non ce la faccio. Ti auguro di essere felice”
Ricordi poco, di quella serata. Ricordi l’ondata di panico che ti ha invasa e che ti stringeva i polmoni, ricordi una telefonata incoerente a Mirko, mentre piangevi e imploravi “Non lasciarmi da sola”, ricordi il bianco della ceramica del cesso, mentre i conati di vomito sembravano persino mozzarti il fiato.
Ginjinha.
Subito dopo aver concluso la chiamata hai aperto la valigia, tirato fuori quella stupida bottiglia che in quel momento detestavi con un fiele invidiabile e hai svitato il tappo, buttando giù il primo sorso e provando sollievo nel bruciore che ti stava invadendo la gola.

Hai ripensato alle telefonate sbrigative degli ultimi giorni che avevi ricollegato al troppo lavoro, all’ultima volta in cui avevi avuto l’impressione fosse amore e non sesso con il quale riempire un vuoto che andava ben oltre le vostre membra, all’ultima volta in cui ti aveva detto “Ti amo” e tu le avevi creduto.

Un altro sorso e l’ultima immagine di lei ti si proietta davanti agli occhi:
un vestito scuro, un paio di tacchi che sembravano fatti per torturare chi li portava e l’ennesimo paio di occhiali da sole che avrebbe perso nel giro di un paio di giorni. Un abbraccio sbrigativo prima di correre al lavoro e un “Scusa se non ti accompagno in aeroporto ma ho un incontro con un cliente” urlato mentre era già in fondo alle scale.

Ginjinha.
Quando Mirko è arrivato avevi svuotato metà bottiglia, incurante dello stato pietoso in cui versavi, disinteressata di fronte al mascara colato e al rossetto sbavato. Ti ha tolto la bottiglia di mano, ne ha versato il contenuto nel lavandino e ti ha tirata su in piedi, prima di tentare di salvare il salvabile in quella che sarebbe stata una delle notti più lunghe di sempre.

Ginjinha.
Oggi, quando le hai aperto la porta, Luisa ti ha porto quella stessa maledetta bottiglia, insieme al secondo che aveva promesso di preparare perché “La ricetta è quella di mia madre. Devi assolutamente assaggiarla”.
Le hai sorriso, prima di farla entrare e di portare tutto in terrazza, dove il tavolo era già apparecchiato.
– A cosa brindiamo? – ti avrebbe chiesto un paio d’ore dopo la ragazza – amica? Amante? Era troppo presto per saperlo.
– Al destino – avresti risposto – Perché è un dannato figlio di puttana. Ma ha un buon senso dell’umorismo –
Ti sorride stupita.
Cin cin.

NdA: la Ginjinha è un liquore tipico portoghese, a base di amarene.

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