​Il sorriso di Colombo

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Tommaso Di Brango
Le bussole di bordo smisero di funzionare non appena varcammo il Mar dei Sargassi. Fino a poco prima indicavano tutte il Nord, com’è naturale che sia; ma da quel momento in poi presero ad andare ciascuna per conto suo, come se fossero governate da una forza misteriosa.
L’equipaggio delle tre caravelle andò in fibrillazione. Gli anziani raccontavano che varcare le Colonne d’Ercole era un atto di grave superbia agli occhi di Dio e che tutti quelli che ci avevano provato erano stati risucchiati dal mare dopo che dei demoni avevano preso il controllo delle loro imbarcazioni. Quelle bussole impazzite potevano essere un primo segnale della fine tremenda che ci aspettava.

Io tendevo a non credere a queste storie ma confesso che ebbi paura e, quando i marinai decisero di inviare una delegazione nello studiolo di Colombo, non mi opposi. Quel genovese maledetto poteva aver trovato una nuova via per le Indie o anche scoperto un nuovo mondo – pensavo –, ma la mia pelle era più importante.

Così entrammo nel suo studio la sera stessa e lo trovammo seduto alla scrivania. A guidare la delegazione c’era Martín Pinzòn con un diavolo per capello. Non eravamo lì per trattare.

«Messer Colombo – esordì Pinzòn –, pur con tutto il rispetto che si deve al gran navigatore che siete siamo qui non per ragionare con voi, ma per comunicarvi la nostra volontà».

Il genovese non batté ciglio e, anzi, ascoltò assorto. Sembrava addirittura interessato.

«Quest’oggi – proseguì Pinzòn – dei demoni hanno preso possesso delle bussole di bordo, ciascuna delle quali ha iniziato ad andare per suo conto. È vero quel che dicevano gli anziani, messer Colombo: non c’è scampo per chi ha l’ardire di oltrepassare le Colonne d’Ercole».

Colombo restava fermo, con l’espressione di uno che ascolta una amena conversazione sull’Orlando innamorato del Boiardo. Pinzòn si asciugò la fronte con la mano destra.

«Per questo motivo noi tutti abbiamo deciso che da adesso bisogna invertire la rotta e tornare a casa. Non vogliamo restare intrappolati nelle viscere degli abissi», e queste ultime parole le pronunciò più rapidamente, come se nel frattempo sentisse il bisogno di inghiottire qualcosa.

Colombo restò immobile per qualche secondo. Poi assunse un’aria vagamente interrogativa e si alzò dalla sedia. Era un uomo assai alto, con molti capelli neri da cui si intravedeva qualche filo d’argento e due occhi chiari che, si raccontava, avevano fatto girar la testa a parecchie donne. Si recò in silenzio verso la finestrella della cabina e, dopo averla raggiunta, si mise a guardare il tramonto dandoci le spalle. Tutti ci interrogammo su cosa stesse pensando e quali fossero le sue intenzioni.

Pinzòn guardò i compagni alla sua destra, poi si voltò dall’altra parte. Non capii se i suoi occhi volevano infondere o cercare sicurezza. In quel momento Colombo esordì: «Davvero voi credete a simili fandonie?»

Non sapemmo rispondere che col silenzio. Quel diavolaccio d’un genovese non si era voltato e dal tono che aveva adoperato non riuscivamo a capire se era irritato o in vena di scherzi. Pinzòn aveva lo sguardo basso.

«Possa il Signore Iddio perdonare il vostro superstizioso timore. Pensare che Egli vi abbia dotato di intelletto ed energia per poi ridurvi a non poter varcare uno stretto come quello delle Colonne d’Ercole significa offenderlo gravemente. Ma in ogni caso voglio ascoltarvi»

«Ma messer Colombo, le bussole per davvero sembrano possedute da una forza demoniaca!», balbettò Pinzòn.

«L’abbiamo visto tutti», aggiunse un altro marinaio; «Quant’è vero Iddio!» confermò un altro ancora mentre tutti annuivano con la testa.

A quel punto Colombo si voltò verso di noi. Aveva stampato in volto un sorriso sornione, come quello del gatto che fa fuggire il topo nell’attesa di riacciuffarlo non appena ne abbia voglia. In quel momento capii che quel genovese aveva ancora una volta fatto l’uovo.

«Messer Colombo, non faccia così!», proruppe Pinzòn.

«Voglio ascoltarvi» rispose Colombo. «E proprio perché voglio ascoltarvi – proseguì – ho deciso di farvi dono delle mie carte nautiche. Credo che dovrete rispondere di fronte a Dio di quel che state facendo: ma se voi desiderate fare di testa vostra non posso impedirvelo. In fin dei conti nemmeno io so perché le bussole sono impazzite e poi voi siete un equipaggio intero mentre io sono uno soltanto»

Pinzòn perse il colore in volto, come del resto noi tutti. Io sentii una specie di fastidio nervoso allo stomaco, come se la pancia di riempisse d’aria.

«Ma messere…», dissi, e fui per un attimo interrotto dal movimento dei suoi occhi, che da Pinzòn si spostarono su di me. «Messer Colombo – ripresi –, noi quelle carte non sappiamo leggerle. Voi siete un navigatore: noi solo dei marinai»

Ci fu un attimo di silenzio rotto da Colombo che, senza perdere il sorriso che aveva stampato in faccia, mi disse: «Posso farvi dono delle mie carte nautiche: non della mia volontà. Se volete tornare a casa eccole: è tutto quel che posso fare per voi».

Tornammo con le pive nel sacco dai nostri compagni. Colombo ci aveva gabbati e noi eravamo convinti che di lì a poco il mare ci avrebbe risucchiati. Quella notte stessa, però, la vedetta vide in lontananza una luce che come una piccola candela si levava e si agitava e all’alba vedemmo galleggiare sul pelo dell’acqua delle foglie di cui non sapevamo individuare la provenienza. Nel giro di un paio di giorni toccammo terra: la terra più bella che io mi ricordi di aver mai visto scorgere dalla linea dell’orizzonte.

Qualche tempo dopo, facendomi coraggio, chiesi a Colombo cosa lo aveva spinto a rischiare la vita per arrivare fin laggiù.

«Affacciandomi dalla finestra del mio studiolo avevo visto uno stormo di uccelli volare verso Sud-Est. La terra non poteva essere lontana», rispose.

«E le bussole? Non avevate timore dei demoni di cui narravano gli anziani?», chiesi.

«Io ho fede nel buon Dio: non ho mai creduto a demoni che si impossessano delle bussole. Perché poi sia accaduto quel fatto non te lo so dire. Ma che importa?»

Nemmeno lui conosceva il fenomeno della declinazione magnetica, che a me fu spiegato solo molti anni dopo.

 

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