Numero civico 36 – parte prima

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Era al numero 36 di una strada che non ricordo. Una cittadina di campagna, lontana, di stradine e di scale che finivano cieche nello stesso identico punto. Aspettavo qualcosa che ho dimenticato non avendola mai trovata. E’ stato allora, in una piazza senza sole che all’improvviso ho capito che avevo cercato altro. Li ho visti in quell’istante per la prima volta, erano soli ognuno per la propria strada, ognuno con la propria direzione negli occhi. Eppure mi sembravano simili, uniti. Era come vedere un filo che li teneva insieme ma separati. Una somiglianza, un movimento delle mani, lo stesso passo nell’affrontare la salita. Dimenticai cosa stavo aspettando, mi nascosi in quell’istante per lungo tempo.

Non li conoscevo, erano stranieri come lo eravamo noi. Tornai a casa, mi fermai sulla soglia del portone e guardai le scale di fronte a me, il rumore dei passi mi trascinava lontano, mi spingeva a tornare indietro a cercare ancora nella piazza di prima le ombre di quelle due persone sconosciute. Volevo, nella mia immaginazione, essere quella che riannodava i fili e li faceva tornare uniti. Non avevano bisogno di me. Ma in quel momento non lo sapevo. Pensavo e immaginavo le direzioni di quelle due persone. Non pensavo ad altro che a loro, non avevo che pochi dettagli raccolti nella memoria per raccontarmi di loro con particolari che nella realtà ignoravo. Non badavo alle parole di chi mi era accanto, pensavo soltanto che quelle due persone erano simili e dovevano tornare insieme e io le avrei aiutate. Il mattino dopo, non presto quando la piazza era piena tornai per vedere altro di loro. Lei con il cappotto lungo quasi ai piedi, degli occhi scintillanti come ne avesse molti entrò nel bar, entrai anch’io.

Mi notò mi sorrise e mi si avvicinò, si abbassò fino al mio viso e non mi disse una parola,aveva occhi intelligenti e buoni, aveva un odore che non conoscevo, mi salirono le lacrime fino in gola e non sapevo il perché. Si rialzò in un istante e uscì fuori di nuovo. Lui era appoggiato alla ringhiera e guardava lontano la vallata. Dietro di lui un’altra donna parlava alla sua schiena immobile si girò un istante per vedere lei come stavo facendo io. Incrociammo i nostri sguardi perduti nella scia dei passi di lei che si allontanavano. La seguii come fossi incoraggiata da quell’uomo che non poteva farlo. La sua casa era in fondo al paese quasi sulla pianura, il portone che apriva era leggero, le sue mani limpide e magre. Mi guardò di nuovo senza vedermi, entrò, trascorsero lunghi minuti, e io rimasi immobile a guardare quel numero in alto accanto all’arco della porta. Poi, senza che me ne accorgessi, lei era di nuovo sulla soglia e mi guardava. Mi salutò con un cenno della testa e poi mi fece un segno perché io entrassi. Non voleva sapere niente non mi faceva domande, canticchiava guardando fuori della finestra.

Non sapevo cosa fare seduta su una sedia alta che non potevo toccare il pavimento neppure con la punta dei piedi. Saltai in piedi e mi avviai per andare via. Ma la sua voce mi fermò: e parlava a me. Sussurrai un sì incerto e stentato. era così, io volevo sapere questo ma dissi no perché non volevo che andasse via e perché non volevo che lasciasse che lui andasse via. Li ho rivisti insieme camminare affiancati senza parlarsi mentre tirava vento e sentii la sua voce dire e lui rispondere con un cenno e un sorriso amato. Il tempo si era fermato lui affrettò il passo lei si tenne indietro.

Io rimasi a guardare quello che non avrei più rivisto. Trascorse l’inverno e anche lui e quella donna muta scomparvero come la neve e come il freddo. La casa dove lei aveva abitato non so per quanto era stata affittata ad una famiglia che vociava in fondo alle scale. Io diventai più grande. E dopo lasciai, insieme a mio padre e mia madre quel paese lontano. E fu in una piazza dove lo sguardo si perdeva nel fragore del mare vicino che li ho rivisti camminarsi affianco. Lei era sorriso e sguardo, denti, e scintille negli occhi, lui era tutto quello che potevo vedere. Il filo che avevo intuito li teneva insieme. Mi vergognai di me persa sui loro passi vicini e simili. Li incontrai di nuovo e ancora altre volte. Lei un giorno lo chiamò per nome davanti a me. Poi salirono insieme verso il colle lontano dal mare su scale che avevo percorso anch’io. Lui si voltò e mi vide, sorrise credo e avvicinò il braccio a lei che andava avanti. Ero smarrita li vedevo invecchiati ma identici a come li ricordavo ma stavolta insieme.

Cambiai città e li ritrovai ancora. Erano al tavolo di un bar con bicchieri trasparenti nelle mani, guardarsi e parlarsi come non avevo mai visto fare. Poi, la incontrai di nuovo. e anche stavolta mi vergognai di chi era con me. Mi guardai nello specchio degli occhi di chi era con me. Non avevo quello che lei aveva. Non avevo quella speranza cieca di avere accanto qualcuno che sapesse chiamarmi per nome. Le dissi qualcosa, farfugliavo parole e lei mi sorrise mi disse ancora che sempre l’avevo scoperta mentre era in vacanza, che negli spostamenti di loro due insieme li avevo colti di sorpresa e lei non sapeva perché fossi capace di trovarli. e non avevo parole per rispondere alla sua quiete. Trascorsero altri giorni e mi ritrovai davanti ad una chiesa. Lei era lì, avvolta e stretta in un cappotto nero. Era un funerale. C’era anche lui distante avvolto da altre persone che lo tenevano lontano. Li seguii per un breve tratto e mi avvicinai a lei che seguiva…

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